Era il 13 marzo di quest’anno quando dalla base di Cape Canaveral in Florida decollava MMS, Magnetospheric MultiScale mission della NASA. Le quattro sonde gemelle che la compongono sono state immesse in orbita attorno alla Terra e dislocate in una formazione a tetraedro, a occupare i vertici di una ideale piramide a base triangolare. Questo per ottenere informazioni dettagliate sulle regioni che circondano il nostro pianeta e in particolare la sua magnetosfera, ricostruendone tridimensionalmente i parametri principali quali intensità e direzione del campo magnetico, densità ed energia delle particelle cariche in esse presenti. Dati preziosi per capire il complesso e dinamico ambiente che avvolge e protegge la Terra dall’attività solare e dai raggi cosmici di alta energia che pervadono il nostro sistema planetario. Ma soprattutto per osservare ‘in diretta’ il fenomeno della riconnessione magnetica e comprendere le sue proprietà. Un obiettivo questo assai qualificante della missione MMS, visto che le riconnessioni magnetiche guidano, ad esempio, l’innesco dei brillamenti solari o delle aurore polari.
A distanza di nove mesi, i primi risultati scientifici della missione MMS sono stati presentati dagli scienziati del Southwest Research Institute, della NASA, dell’Università del Colorado a Boulder e della Johns Hopkins University Applied Physics Laboratory al convegno autunnale della American Geophysical Union a San Francisco che si è concluso nello scorso fine settimana.
«Abbiamo registrato oltre 2.000 attraversamenti della magnetopausa da quando è partita la fase scientifica vera e propria della missione», ha dichiarato Jim Burch, ricercatore del Southwest Research Institute di San Antonio, Texas, principal investigator della missione MMS . «In questo periodo, abbiamo registrato centinaia di eventi promettenti». In questa fase infatti, i veicoli spaziale si sono disposti in prossimità dei confini della zona diurna della magnetosfera – la magnetopausa appunto – dove il vento solare e altri fenomeni prodotti dalla nostra stella innescano eventi di riconnessione magnetica. In seguito, la loro orbita li porterà ad allontanarsi, verso le regioni più remote del lato notturno della magnetosfera, a caccia di altri episodi di riconnessione magnetica, innescati però da altri processi fisici.
Ciascuna delle sonde MMS porta con sé un gruppo di strumenti per caratterizzare il comportamento dei campi elettrici e magnetici nelle regioni dove si verifica la riconnessione magnetica. Questa suite di strumenti, che prende il nome di FIELDS è composta da sei sensori che lavorano insieme per restituire una visione tridimensionale dei campi elettrici e magnetici in prossimità del veicolo spaziale. Uno dei punti forti di quest’attrezzatura è la qualità delle misure che riesce a ottenere, anche grazie ai lunghi bracci su cui è installata.
«Questa configurazione è stata scelta per misurare i campi con il minimo dei disturbi, che inevitabilmente vengono prodotti dall’elettronica a bordo della navicella spaziale stessa», spiega Katherine Goodrich, giovane ricercatrice dell’Università del Colorado a Boulder, che fa parte del team della missione. Lungo il piano di rotazione, i bracci misurano oltre 120 metri, più lunghi di un campo regolamentare da calcio. I bracci che dislocati parallelamente all’asse di rotazione arrivano invece alla lunghezza di 30 metri. Nella sua presentazione, Katherine Goodrich ha mostrato alcune osservazioni ottenute dagli strumenti FIELDS in cui sono stati registrati, su tempi inferiori a mezzo secondo, campi elettrici paralleli, una configurazione necessaria affinché si possano verificare i fenomeni di riconnessione magnetica.
Un altro, importante capitolo riguardante la presentazione dei primi risultati della missione MMS ha riguardato le proprietà delle particelle accelerate dai processi di riconnessione magnetica. Ian Cohen, post-doc presso la Johns Hopkins University Applied Physics Laboratory, ha presentato un’analisi preliminare dei dati raccolti finora da due rivelatori di particelle a bordo delle sonde MMS: il Fly’s Eye Energetic Particle Sensor (FEEPS), e l’Energetic Ion Spectrometer, che mette in luce un meccanismo attraverso il quale le particelle possono sfuggire all’ambiente terrestre e diffondersi nello spazio interplanetario. Quando si ha riconnessione magnetica nella zona illuminata della magnetosfera, le linee del campo magnetico del Sole si collegano direttamente a quello terrestre. «La connessione di questi campi magnetici può produrre una deriva delle particelle all’interno della magnetosfera, verso il confine tra il campo magnetico terrestre e il flusso di particelle trasportato dal vento solare», ha spiegato Cohen. «Una volta giunte in prossimità di quel confine, ulteriori eventi di riconnessione permettono alle particelle di sfuggire definitivamente e fluttuare lungo le linee del campo magnetico interplanetario».