Si chiama WSRT ed è un grande radiotelescopio interferometrico della rete VLBI, costruito negli anni Settanta e formato da 14 antenne, ciascuna da 25 metri di diametro, disposte nell’arco qualche km. Dieci sono fisse, le altre quattro si possono spostare lungo una rotaia. Si chiama WSRT, dicevamo: acronimo di Westerbork Synthesis Radio Telescope. Westerbork è il luogo in cui sorge, dal nome della cittadina che si trova una decina di chilometri più a sud, nel nordest dell’Olanda, a circa un’ora di auto da Amsterdam. Ed è un luogo insolitamente isolato, almeno per gli standard olandesi.
«C’è molto bosco», ricorda Karl‐Heinz Mack, ricercatore all’Istituto di Radioastronomia dell’INAF di Bologna, che proprio a Dwingeloo (sede principale di ASTRON, l’istituto olandese per la radioastronomia) e al WSRT ha trascorso due anni come postdoc, dal 2001 al 2002, «e una densità di popolazione assai ridotta, per i Paesi Bassi. E questa è una fra le ragioni per cui è stato scelto come sede per un radiotelescopio». Già, perché i radiotelescopi sono infastiditi dalle interferenze, per esempio quelle dei telefoni cellulari o dei radiocomandi per i cancelli, dunque devono sorgere in località quanto più lontane possibile dai centri abitati.
Ma non ci sono solo i radiotelescopi, a essere infastiditi dalle interferenze. Ed è infatti proprio per questo suo isolamento che Westerbork venne scelto, nel 1939, dopo che l’allora governo olandese decise di chiudere i propri confini, come campo per i rifugiati – principalmente ebrei – in fuga dalla Germania nazista. Una destinazione d’uso che durò poco più d’un anno: con l’invasione dell’Olanda da parte dell’esercito tedesco, nel maggio del 1940, Westerbork venne trasformato in un campo di deportazione, un luogo di “smistamento”. Per “gestire un flusso”, per dirla con l’orrendo lessico burocratico tutt’ora in uso, non più dalla Germania verso l’Olanda, bensì nel verso contrario. Il tutto, appunto, al riparo per quanto possibile da interferenze e sguardi indiscreti.
Ma chi vuole vedere, chi vuole sentire, chi vuole capire, non si fa certo ingannare dal bosco che avvolge il campo. E fra i tanti che sentono e che comprendono cosa sta accadendo, là a Westerbork, c’è anche una ragazzina di tredici anni, che il 9 ottobre del 1942 annota sul suo diario queste parole:
Cara Kitty, oggi non posso darti che notizie brutte e deprimenti. Stanno arrestando, a gruppi, tutti i nostri amici ebrei. La Gestapo è tutt’altro che riguardosa con questa gente; vengono trasportati in carri bestiame a Westerbork, il grande campo di concentramento per ebrei nella Drenthe. […] Westerbork dev’essere terribile; per centinaia di persone un solo lavatoio e pochissime latrine… Fuggire è impossibile; quasi tutti gli ospiti del campo sono riconoscibili dai loro crani rasati e molti anche dal loro aspetto ebraico.
Là da quel luogo dove ora sorgono le 14 antenne del WSRT, fra il mese di luglio del 1942 e il 3 settembre del 1944 i nazisti deportarono 97.776 ebrei: 54.930 diretti ad Auschwitz, con 68 trasporti, 34.313 verso il campo di sterminio di Sobibor (19 trasporti), 4.771 verso il campo di concentramento di Theresienstadt (7 trasporti) e 3.762 verso quello di Bergen-Belsen (9 trasporti). La maggior parte di quelli con destinazione Auschwitz e Sobibor vennero uccisi subito, all’arrivo. Altri nei mesi successivi.
Ognuna e ognuno di loro, così come ogni rom e ogni sinti costretto a subire lo stesso destino, racconta Karl‐Heinz Mack, è oggi ricordato nell’Appelplatz Memorial di Westerbork da una piccola pietra rettangolare. In cima a ogni pietra una fiamma, per gli zingari. Per gli ebrei, una stella.
Alla perspicace ragazzina che, all’epoca, teneva il suo diario segreto in un ancor più segreto rifugio incastonato in una casa di Amsterdam, le sole stelle che proprio piacciono da impazzire sono quelle del cinema, le cui immagini colleziona e riordina, nelle lunghe domeniche di solitudine, in una raccolta “che ha già raggiunto dimensioni assai rispettabili”, come annota un giorno con un certo orgoglio. Poi ci sono altre stelle a costellare il diario, vistose stelle a sei punte che è costretta a indossare. Ma c’è un’eccezione, ed è alla pagina del 15 giugno del 1944, là dove Anne parla proprio delle stelle del cielo:
Non è una mia fantasia – guardare il cielo, le nubi, la luna e le stelle mi rende tranquilla e piena di speranza. È una medicina assai migliore della valeriana o del bromuro. La natura mi rende umile e pronta ad affrontare con coraggio ogni avversità.
Fra le avversità da affrontare con coraggio c’era quel luogo maledetto. Quel luogo dal quale partivano binari diretti verso est, binari che ora s’interrompono. «Li hanno piegati verso l’alto, così da renderli inutilizzabili, come a dire: una cosa del genere non può accadere mai più», spiega Mack.
Allora no, allora i binari non erano interrotti, e i convogli transitavano regolarmente, come testimonia la minuziosa contabilità dei trasporti riportata poco sopra. E su uno di questi, un convoglio diretto verso Auschwitz-Birkenau, un giorno d’inizio settembre del 1944, c’era pure lei, la ragazzina del diario. Era stata rinchiusa lì a Westerbork il mese prima, in un edificio ancora oggi conservato, a poche centinaia di metri da dove ora si trovano le antenne del radiotelescopio.
In una fra le ultime pagine del suo diario incontriamo di nuovo un riferimento al cielo, a quel cielo che dal nascondiglio era anche tutto il mondo possibile. Ed è con le sue parole, con quello scampolo di cielo, e con la fioca nota di speranza che Anne riusciva a trarne, che vogliamo concludere questo piccolo contributo di Media INAF al Giorno della Memoria:
15 luglio 1944 – È un gran miracolo che io non abbia rinunciato a tutte le mie speranze, perché esse sembrano assurde e inattuabili. Le conservo ancora, nonostante tutto, perché continuo a credere nell’intima bontà dell’uomo. Mi è impossibile costruire tutto sulla base della morte, della miseria, della confusione. Vedo il mondo mutarsi lentamente in un deserto, odo sempre più forte l’avvicinarsi del rombo che ucciderà noi pure, partecipo al dolore di milioni di uomini, eppure quando guardo il cielo, penso che tutto si volgerà nuovamente al bene, che anche questa spietata durezza cesserà, che ritorneranno l’ordine, la pace e la serenità.