Sono stati acquisiti nel corso di due scan successivi, effettuati – a 15 minuti l’uno dall’altro – da 108 mila km di distanza, gli ultimi dati analizzati a Terra provenienti dalla sonda NASA che a luglio sfiorò Plutone. A raccoglierli, uno spettrometro infrarosso di ultima generazione, LEISA (Ralph/Linear Etalon Imaging Spectral Array), in grado di catturare la firma dell’acqua ghiacciata.
Il risultato preliminare, ottenuto confrontando gli spettri acquisiti da LEISA con lo spettro del ghiaccio d’acqua puro, è stato quello che vedete qui sopra nella mappa a sinistra. Ed è subito emerso un limite della tecnica utilizzata: lo spettro del ghiaccio d’acqua viene infatti oscurato da quello del metano. Di conseguenza, la mappa indica presenza d’acqua ghiacciata solo nelle zone in cui è estremamente abbondante o in quelle dove c’è carenza di metano. Insomma, una rappresentazione incompleta, che gli scienziati di New Horizons sono però riusciti a correggere affinando l’algoritmo d’analisi e rendendolo più sensibile. Il nuovo risultato, visibile nella mappa a destra, mostra come la presenza in superficie di ghiaccio d’acqua – qui rappresentato dai pixel colorati – sia in realtà assai più diffusa. Se ne trova praticamente ovunque, a parte due curiose eccezioni: le regioni conosciute come Lowell Regio, a nord, e Sputnik Planum, la macchia meglio nota come “il cuore di Plutone”. La causa, ipotizzano gli scienziati, è che in queste due zone del pianeta il letto d’acqua ghiacciata è interamente coperto da una coltre di altri tipi di ghiaccio, principalmente di metano e di monossido di carbonio.
Sempre il 14 luglio 2015, ma da una distanza maggiore (180 mila km), LEISA ha poi eseguito una “lastra” all’infrarosso – lungo l’intero range di lunghezze d’onda alle quali è sensibile, da 1.25 a 2.5 micron – non più della superficie, questa volta, bensì dell’atmosfera di Plutone. È la prima volta che questo tipo di misura viene eseguito, e il risultato è lo spettacolare anello blu che vedete qui a fianco.
A generarlo, la dispersione della luce del Sole dovuta all’interazione con una sorta di “smog fotochimico”: minuscole particelle formate da idrocarburi, come l’acetilene e l’etilene, prodotti a loro volta dall’impatto dei raggi solari sul metano e altre molecole presenti in atmosfera.