Una recente campagna osservativa che coinvolge svariati telescopi ottici terrestri e il telescopio spaziale Swift della NASA, in grado di operare nelle bande ottico/ultravioletta e nelle alte energie (raggi X e gamma), ha consentito a un gruppo di scienziati di misurare con grande precisione la velocità di rotazione di uno dei buchi neri più massicci dell’Universo. Il momento angolare del buco nero, legato alla sua velocità di rotazione è pari a un terzo del valore massimo consentito dalla relatività generale. Questo colosso da 18 miliardi di masse solari è un quasar, si chiama OJ 287, e si trova a circa 3.5 miliardi di anni luce di distanza dalla Terra. I quasar, contrazione dell’espressione “QUASi-stellAR radio sources” (ovvero sorgenti radio quasi stellari), sono i nuclei molto luminosi di galassie lontane, che emettono enormi quantità di radiazione elettromagnetica a causa della caduta di materia sul buco nero centrale.
Questo quasar, in particolare, si trova molto vicino all’eclittica, il percorso apparente del Sole sulla sfera celeste, dove si concentrano la maggior parte delle ricerche di asteroidi e comete. Per questo motivo, le sue osservazioni in banda ottica coprono un arco di tempo di oltre 100 anni. Un’attenta analisi di questo immenso dataset di osservazioni ha mostrato che OJ 287 emette lampi ottici quasi-periodici ogni 12 anni circa. Esaminando poi i dati più recenti è stato possibile individuare la presenza di doppi picchi all’interno di questi lampi.
Dopo aver raccolto tutte queste informazioni, il prof Mauri Valtonen dell’Università di Turku e i suoi collaboratori hanno deciso di sviluppare un modello che prevedesse la presenza all’interno di OJ 287 di due buchi neri di massa differente. Nel loro modello, il sistema è composto da un buco nero supermassiccio circondato da un disco di accrescimento e un altro buco nero più piccolo che gli ruota attorno. L’emissione di OJ 287 è determinata dal lento accrescimento di materia che spiraleggiando cade verso il buco nero più massiccio. Inoltre, l’orbita del buco nero più piccolo attraversa il disco, e quando questo accade il materiale di cui è composto il disco si riscalda per periodi molto lunghi (fino a qualche settimana). Questo provoca picchi di luminosità, mentre la presenza del doppio picco è causata dalla forma ellittica dell’orbita del buco nero di taglia minore.
Stando alla teoria, l’orbita del buco nero più piccolo dovrebbe cambiare inclinazione, e questo dovrebbe avvenire dove e quando l’orbita intercetta il disco di accrescimento. Questo effetto, detto precessione, deriva dalla teoria della relatività generale di Einstein e la sua intensità dipende principalmente dalle due masse dei buchi neri e dalla velocità di rotazione del buco nero più massiccio.
Nel 2010 Valtonen e i suoi colleghi hanno hanno utilizzato dati provenienti da otto episodi di esplosioni luminose di OJ 287 di cui si avevano informazioni dettagliate sui tempi d’arrivo. L’obiettivo era ottenere una misurazione precisa della precessione dell’orbita del buco nero più piccolo. Questa analisi ha permesso di ottenere con estrema precisione la velocità di rotazione del buco nero più massiccio e di stimare le masse dei due buchi neri. Il risultato è stato possibile perché la precessione dell’orbita del buco nero più piccolo è pari all’incredibile valore di 39° per ogni singola orbita. Grazie alla teoria della relatività generale gli scienziati hanno potuto anche calcolare quando sarebbe avvenuto il prossimo evento esplosivo, e secondo le stime il sistema si sarebbe riacceso proprio attorno al centesimo anniversario della relatività generale stessa, il 25 novembre 2015. Lo stesso gruppo di ricerca aveva previsto un evento analogo nel 2007, che si era puntualmente verificato, valendo al gruppo una pubblicazione sulla prestigiosa rivista Nature.
Forti della loro previsione, quindi, gli scienziati hanno lanciato una campagna di osservazione per cogliere sul fatto l’esplosione prevista. L’aumento di luminosità in banda ottica è iniziato il 18 novembre scorso e ha raggiunto il suo massimo il 4 dicembre. Grazie ai dati raccolti durante questo evento, Valtonen e i suoi collaboratori hanno potuto misurare in maniera diretta la velocità di rotazione del buco nero più massiccio, che si è rivelato pari ad un terzo del valore massimo consentito dalla relatività generale.
Le osservazioni che hanno condotto alla misura estremamente accurata della velocità di rotazione sono state ottenute grazie alla collaborazione di una serie di telescopi ottici che si trovano in Giappone, Corea del Sud, India, Turchia, Grecia, Finlandia, Polonia, Germania, Regno Unito, Spagna, Stati Uniti e Messico. L’incredibile lavoro di coordinazione, guidato da Staszek Zola dalla Polonia, ha coinvolto in tutto un centinaio di astronomi provenienti dai paesi elencati. È interessante notare che un certo numero di partecipanti erano appassionati di astronomia, che hanno messo a disposizione dello studio i loro telescopi personali.
Il fatto che l’intenso lampo di emissione si sia verificato esattamente quando e come previsto dalla teoria della relatività generale ha permesso di confermare la perdita di energia orbitale dovuta all’emissione di onde gravitazionali entro il 2% dalle stime teoriche. Questo ci fornisce la prima prova indiretta dell’esistenza di un buco nero supermassiccio in rotazione che emette onde gravitazionali. La notizia è piuttosto incoraggiante, specialmente per collaborazioni come i cosiddetti Pulsar Timing Array, di cui fa parte il Sardinia Radio Telescope dell’INAF, che sono impegnati nella ricerca di sistemi che emettono onde gravitazionali. In sostanza, questo lampo di luce visibile da parte di OJ 287 ha contribuito alle celebrazioni del centenario della relatività generale e ha aggiunto ulteriore entusiasmo alla notizia della prima osservazione diretta di un segnale di onde gravitazionali da parte della collaborazione LIGO.
«Si tratta di un risultato veramente notevole», dice a Media INAF Guido Risaliti dell’INAF – Osservatorio Astrofisico di Arcetri. «Questo gruppo ha fatto delle previsioni molto precise, che quindi potevano solo essere confermate totalmente, o smentite (invalidando così il modello). Non c’era quindi alcuna possibilità di “aggiustare” la teoria in caso di discrepanza con le previsioni. L’aspetto importante è che tali previsioni erano fortemente basate su effetti di relatività generale: se non si fosse tenuto conto di questi effetti, come ad esempio la precessione delle orbite, o la perdita di energia per emissione di onde gravitazionali, le previsioni sarebbero state sensibilmente diverse. Quindi queste nuove misure confermano in modo univoco e preciso sia la teoria della relatività generale nei suoi vari aspetti, sia lo scenario astrofisico del sistema di due buchi neri supermassivi in rotazione uno intorno all’altro. Avere delle osservazioni che confermano l’esistenza di tali sistemi è fondamentale per le teorie di evoluzione delle galassie che predicono l’esistenza di tali buchi neri binari, che finiscono inevitabilmente per fondersi per il progressivo avvicinamento dovuto all’emissione di onde gravitazionali.
«Facendo un parallelo con la misura delle onde gravitazionali di poche settimane fa», prosegue Risaliti, «molti colleghi, all’apprendere la notizia, si sono rallegrati e hanno considerato la scoperta importante non tanto per le onde gravitazionali in se stesse (in fondo, sapevamo già che esistono, ed e stato già dato un premio Nobel, nel 1993, per le misure indirette che ne dimostravano l’esistenza!), ma per aver “visto” tramite di esse due buchi neri che si sono uniti. Analogamente, penso che il valore di questo progetto stia non solo nel test, peraltro precisissimo, degli effetti relativistici, ma anche, e forse soprattutto, nel dimostrare in modo univoco l’esistenza di questi sistemi di buchi neri binari».
Per saperne di più:
- Leggi l’articolo pubblicato su The Astrophysical Journal “Primary Black Hole spin in OJ 287 as determined by the General Relativity centenary flare” di M. J. Valtonen, S. Zola, S. Ciprini et al.
- Integrazione del 7 novembre 2016: riceviamo da Stefano Ciprini, e volentieri segnaliamo, che lo stesso Stefano Ciprini (dell’ASDC – ASI Science Data Center di Roma e dell’INFN), Matteo Perri e Francesco Verrecchia (entrambi dell’ASDC e dell’INAF Osservatorio astronomico di Roma), tutti e tre fra i coautori dello studio, hanno contribuito al risultato con un’accurata analisi dei dati ottenuti rispettivamente dagli strumenti XRT e UVOT a bordo del satellite Swift.