La materia oscura è ovunque attorno a noi. Sebbene nessuno l’abbia mai vista e non si sappia cosa sia realmente, è indiscutibile che ci sia e che costituisca circa il 27% dell’Universo in cui viviamo. Per confronto, solo il 5% del contenuto dell’Universo corrisponde alla materia che conosciamo, dal singolo atomo alla più grande galassia.
Da molti anni i ricercatori stanno cercando di rilevare questa sfuggevole componente, fatta di materia invisibile ai nostri occhi. Svariati dispositivi sono stati realizzati e distribuiti sulla Terra e nello spazio allo scopo di catturare le particelle che riteniamo possano costituire la materia oscura, e alcuni esperimenti hanno cercato di creare queste particelle facendo collidere tra loro altre particelle di materia ordinaria. Anche se questo tipo di esperimenti dovesse avere successo, potremmo non essere in grado di rilevare direttamente la materia oscura. Potrebbe crearsi e sparire dai rivelatori, portando però con sé un po’ di energia in eccesso, che potrebbe essere misurata e indicare in maniera indiretta che è stata effettivamente prodotta una particella di materia oscura.
Nonostante questi sforzi, non è ancora stato possibile rilevare alcuna particella oscura. «Forse perché abbiamo cercato le particelle di materia oscura in un modo che non ci permetterà mai di rivelarle», dice Martin Sloth, professore associato presso il Centre for Cosmology and Particle Physics Phenomenology (CP3-Origins) della University of Southern Denmark. Sloth, insieme ai due ricercatori postdoc Sandora McCullen di CP3-Origins e Mathias Garny del CERN, ha presentato un nuovo modello per spiegare la natura della materia oscura, che è stato pubblicato pochi giorni fa sulla rivista Physical Review Letters.
Da sempre i fisici basano i loro studi sul fatto che la materia oscura sia molto leggera e interagisca debolmente con la materia ordinaria. Secondo la teoria più accreditata, infatti, le particelle di materia oscura sono particelle dotate di massa e debolmente interagenti (in inglese “weakly-interacting massive particle”, o WIMP), e dovrebbero essere state create in grandi quantità poco dopo la nascita dell’Universo, avvenuta circa 13.7 miliardi di anni fa.
«Dal momento, però, che nessun esperimento è riuscito a raccogliere alcuna evidenza osservativa di queste WIMP, la soluzione dell’enigma potrebbe essere che dobbiamo andare a cercare particelle più pesanti che interagiscono unicamente attraverso la gravità, e dunque impossibili da rilevare direttamente», spiega Sloth. Per questo motivo Sloth e i suoi colleghi propongono la loro versione di una particella molto massiccia, che chiamano PIDM, che sta per Planck Interacting Dark Matter, ovvero particelle che interagiscono sulla scala di Planck.
Nel loro modello hanno valutato come si sarebbero potute creare particelle di tipo PIDM nell’Universo primordiale. «Sarebbe possibile se l’Universo fosse stato estremamente caldo. Per essere più precisi, le temperature dell’Universo primordiale dovrebbero essere le più alte possibili secondo la teoria del Big Bang», dice Sloth. L’aspetto interessante di questa teoria è che può essere sottoposta a test, e dunque verificata o falsificata. «Se l’Universo fosse stato davvero così caldo, avrebbe generato nelle sue prime fasi di vita grandi quantità di onde gravitazionali, che potremmo rilevare nel prossimo futuro».
Con questa affermazione Sloth fa riferimento a una serie di esperimenti pianificati in tutto il mondo, che saranno in grado di rilevare segnali di onde gravitazionali provenienti dalle regioni più remote dell’Universo. «Se questi esperimenti non cattureranno questo tipo di segnale, allora il nostro modello verrà falsificato. Pertanto le onde gravitazionali possono essere utilizzate per testare il modello che prevede le PIDM», aggiunge Sloth.
Esistono più di dieci esperimenti pianificati, che mirano a misurare la polarizzazione della radiazione cosmica di fondo, sia da Terra che con strumenti inviati in atmosfera o su satelliti. Nei prossimi anni potremo quindi cercare conferma di questa nuova teoria.
Per saperne di più:
- Leggi l’articolo su Physical Review Letters “Planckian Interacting Massive Particles as Dark Matter” di Mathias Garny, Sandora McCullen e Martin S. Sloth