Cominci con un innocuo ‘luminosissime’, un superlativo come tanti. Poi ne trovi di ancora più lucenti, e allora vai con ‘ultra-luminose’. Ma anche queste finiscono per cedere il passo a qualcosa di più, alle ‘iper-luminose’. E un giorno succede che finisci gli aggettivi. Ancora quel giorno non è arrivato, ma ci siamo quasi: la scoperta appena pubblicata su Monthly Notices of the Royal Astronomical Society sta mettendo il lessico a dura prova. Outrageously Luminous – ‘scandalosamente luminose’, è la soluzione alla quale s’è visto costretto l’altrettanto scandalosamente brillante e precoce astronomo che le ha scoperte, Kevin Harrington, laureando – sì, avete letto bene: si laurea a maggio, con un doppio major in astronomia e, tanto per non farsi mancare nulla, in neuroscienze – alla University of Massachusetts di Amherst.
Protagoniste dello sbarluccicante record, otto remote galassie: la loro scandalosa luce, per giungere a noi, ha dovuto viaggiare 10 miliardi di anni, il che significa che si sono formate circa 4 miliardi di anni dopo il Big Bang. Dunque non solo molto luminose, ma anch’esse molto precoci, almeno in termini cosmici.
E attenzione, perché l’esuberanza lessicale, qui, non è gratuita: traduce numeri. Per categorizzare la luminosità delle galassie osservate in infrarosso, spiega infatti Harrington, gli astronomi usano ‘ultra-luminosa’ quando la luce emessa è pari a mille miliardi di volte quella del Sole, ‘iper-luminsa’ per diecimila miliardi di soli. Nel caso delle otto galassie appena scoperte, però, parliamo di una luminosità corrispondente a centomila miliardi di volte quella del Sole: «Noi non abbiamo neppure un nome», dice Harington, che pure una via d’uscita l’ha escogitata.
Domanda ingenua: ma se sono tanto luminose, come mai le hanno viste solo ora? La risposta sta in parte nella loro immensa distanza da noi, certo, ma anche in un’altra considerazione assai più curiosa, sottolineata dal relatore di Harrington, nonché coautore dello studio, Min Yun. «La teoria non ne prevedeva l’esistenza. Sono talmente grandi e talmente luminose che nessuno s’era messo seriamente a cercarle», ammette candidamente Yun. «Sapere che esistono davvero e quanto sono cresciute nei primi 4 miliardi di anni dal Big Bang ci aiuterà a stimare la quantità di materia all’epoca a loro disposizione. La loro stessa esistenza ci insegna molte cose sul processo di raccolta di materia e di formazione delle galassie. E ciò che suggeriscono è che si tratta d’un processo più complesso di quanto molti di noi immaginassero».
Per individuarle, Harrington e colleghi hanno fatto uso di “strumenti” messi a disposizione dalla Natura, le lenti gravitazionali, e di tre strumenti di fattura umana: il Large Millimetre Telescope messicano (con una parabola a superficie attiva da 50 metri di diametro) e i due telescopi spaziali dell’ESA Herschel e Planck.
Ed è proprio a uno scienziato italiano della collaborazione Planck, Carlo Burigana, cosmologo all’INAF IASF di Bologna e già coordinatore della Core Team Area Non-CMB Science di Planck LFI, il team volto agli studi astrofisici con i dati del satellite ESA, che Media INAF ha chiesto se davvero si tratta, come affermano gli autori dello studio, delle “galassie più luminose dell’Universo”.
«Be’, in astrofisica “mai dire mai”», mette le mani avanti Burigana, «nel senso che spesso la scoperta di un fenomeno luminosissimo o lontanissimo è stata seguita a distanza di pochi anni da una ancora più sorprendente. Comunque, sebbene l’amplificazione (probabilmente dell’ordine di un fattore dieci) della luminosità intrinseca di queste galassie da effetto di lente gravitazionale non sia stata quantificata con precisione, appaiono davvero come dei “mostri astrofisici”. Si tratta probabilmente di galassie con una straordinaria attività di formazione stellare».
«Un risultato», sottolinea Burigana, «che ci dice molto anche sul contributo di Planck alla scienza. Dal punto di vista osservativo, mi soffermerei su due aspetti salienti. Il primo riguarda la rilevanza non solo cosmologica ma anche astrofisica delle lunghezze d’onda osservate da Planck. Per effetto sia del redshift cosmologico sia delle polveri, che riprocessano la luce stellare dall’ottico e ultravioletto all’infrarosso e a lunghezze d’onda submillimetriche, la banda millimetrica è fondamentale per studiare le prime fasi dell’evoluzione delle galassie. Il secondo aspetto è tipico delle survey a tutto cielo, com’è appunto quella di Planck, così cruciali per lo studio del fondo cosmico a microonde: sono uno strumento importantissimo non solo, com’è ovvio, per l’analisi delle proprietà su larga scala, ma anche per scoprire fenomeni rari. Più in generale, questo risultato conferma l’estrema rilevanza di Planck in termini d’informazione cosmologica, astrofisica e di fisica fondamentale. Questi oggetti ci parlano dell’origine delle strutture cosmiche, di processi astrofisici estremi e costituiscono un test prezioso di relatività generale».
Per saperne di più:
- Leggi su Monthly Notices of the Royal Astronomical Society l’articolo “Early Science with the Large Millimeter Telescope: Observations of Extremely Luminous High-z Sources Identified by Planck”, di K. C. Harrington, Min S. Yun, R. Cybulski, G. W. Wilson, I. Aretxaga, M. Chavez, V. De la Luz, N. Erickson, D. Ferrusca, A. D. Gallup, D. H. Hughes, A. Montana, G. Narayanan, D. Sánchez-Argüelles, F. P. Schloerb, K. Souccar, E. Terlevich, R. Terlevich, M. Zeballos e J. A. Zavala