UNA COSTELLAZIONE DI “OROLOGI COSMICI”

Pulsar come Gps per le onde gravitazionali

I risultati ottenuti in nove anni dal consorzio americano NANOGrav consentono di porre limiti astrofisici significativi per la ricerca di onde gravitazionali a bassa frequenza. Nichi D’Amico (Presidente INAF): «Esperimenti analoghi sono in corso anche in Europa con la collaborazione EPTA»

     06/04/2016
La Terra è continuamente in balia di onde gravitazionali a bassa frequenza prodotte da sistemi binari di buchi neri supermassicci nel cuore di galassie remote. Gli astrofisici utilizzano le pulsar come rivelatori dalle dimensioni equivalenti a quelle d’un’intera galassia per misurare il movimento indotto da queste onde sul nostro pianeta. Crediti: B. Saxton (NRAO / AUI / NSF)

La Terra è continuamente in balia di onde gravitazionali a bassa frequenza prodotte da sistemi binari di buchi neri supermassicci nel cuore di galassie remote. Gli astrofisici utilizzano le pulsar come se fossero un rivelatore dalle dimensioni equivalenti a quelle d’un’intera galassia per misurare il movimento indotto da queste onde sul nostro pianeta. Crediti: B. Saxton (NRAO / AUI / NSF)

Hanno tenuto gli occhi, anzi, le “orecchie” puntate su 54 pulsar per nove lunghi anni. Volevano udire l’eco elettromagnetica delle onde gravitazionali a bassa frequenza. Non hanno sentito nulla, ma il risultato, riportato ora su The Astrophysical Journal, è comunque fondamentale. Per almeno due motivi. Anzitutto, consente di calcolare un limite superiore su particolari sistemi binari di buchi neri (e di conseguenza sulle galassie che li ospitano), e questo ha conseguenze importanti per comprendere come entrambi evolvono. Inoltre, sottolineano gli scienziati di NANOGrav (North American Nanohertz Observatory for Gravitational Waves, il consorzio che ha condotto la campagna osservativa), il limite che questi risultati impongono alla tensione delle stringhe cosmiche è il più stringente mai ottenuto.

Le “orecchie”, nel caso di NANOGrav, sono un paio di radiotelescopi fra i più sensibili al mondo: il Green Bank Telescope, in West Virginia, e l’Osservatorio di Arecibo, a Puerto Rico. E le onde che cercavano di captare erano appunto quelle a bassa frequenza, gli “infrasuoni” del dominio gravitazionale. Quelle prodotte non dall’incontro di due buchi neri di massa stellare, o tutt’al più XL, come la coppia protagonista dell’evento del settembre scorso, ma da veri e propri sistemi binari di buchi neri supermassicci: coppie di mostri che albergano nel cuore di alcune galassie, frutto a loro volta di una fusione. In altre parole, parliamo di onde che hanno all’origine il merging d’intere galassie.

Una sfida nella sfida, concettuale e tecnologica: se già rivelare per la prima volta onde gravitazionali – quelle a frequenza relativamente alta intercettate da LIGO/Virgo – ha richiesto un secolo, cogliere tracce di quelle a bassa frequenza si preannuncia assai più difficile. Un po’ come la differenza fra voler sentire un suono di volume incredibilmente basso, compito già arduo, e cimentarsi invece con il doverne captare uno di volume altrettanto basso ma, in più, di frequenza inferiore a quei 10-20 Hz che segnano il limite minimo al quale le nostre orecchie sono sensibili.

Lo spettro delle onde gravitazionali, con le sorgenti (in alto) e i rivelatori (in basso). Crediti: NASA Goddard Space Flight Center

Lo spettro delle onde gravitazionali, con le sorgenti (in alto) e i rivelatori (in basso). Crediti: NASA Goddard Space Flight Center

Come fare? Se per le onde acustiche occorre un “orecchio da balena”, per quelle gravitazionali occorre anzitutto moltissimo ingegno. Parliamo di onde la cui lunghezza (vedi lo schema qui sopra) si misura non in metri o frazioni di metro, come quelle alle quali siamo abituati, ma in anni luce! Comunque sia, per quanto in modo impalpabile, il tessuto dello spaziotempo è increspato senza sosta da onde del genere: la combinazione di tutti i buchi neri supermassicci binari che popolano l’universo produce infatti una sorta di “ronzio” costante – un fondo d’onde gravitazionali stocastico, lo definiscono gli scienziati – che stando ai modelli dovrebbe essere rilevabile anche qui sulla Terra.

È qui che entrano in gioco le pulsar, in particolare quelle a rotazione più rapida: le millisecond pulsar. Il metodo si chiama pulsar timing array, e ricorda abbastanza il nostro sistema GPS: con le pulsar al posto dei satelliti, però, e la Terra al posto dell’auto. L’obiettivo è infatti quello di misurare gli impercettibili spostamenti del nostro pianeta – usato in questo caso come “boa” nell’oceano dello spaziotempo (vedi immagine in apertura) – prodotti da contrazioni e distensioni dovute all’azione di onde gravitazionali.

In basso, il logo della collaborazione EPTA. In altro, una foto di SRT, il Sardinia Radio Telescope (crediti: Sergio Poppi)

In basso, il logo della collaborazione EPTA. In altro, una foto di SRT, il Sardinia Radio Telescope (crediti: Sergio Poppi)

E proprio come nel sistema GPS non basta un solo satellite, ma ne occorre un’intera costellazione (e più alto è il numero dei satelliti captati, maggiore sarà la precisione del ricevitore a terra), anche con le pulsar occorre un’intera schiera di sorgenti: un pulsar timing array, appunto. Nel caso della campagna osservativa condotta da NANOGrav, parliamo di 54 millisecond pulsar, ognuna con il suo clock radio dalla regolarità senza rivali.

«È un esempio delle potenziali applicazioni di quegli oggetti che non a caso abbiamo battezzato orologi cosmici. Una rete di orologi di precisione disseminati nella nostra Galassia, sensibili alle increspature dello spaziotempo, e che ci permetterà di misurare le onde gravitazionali di frequenza più bassa di quelle rivelabili da interferometri come LIGO e VIRGO. Ambiziosi esperimenti del genere», sottolinea Nichi D’Amico, Presidente dell’INAF, «sono in corso anche in Europa: è il caso dell’esperimento EPTA, lo European Pulsar Timing Array, in cui è coinvolto anche SRT, il Sardinia Radio Telescope, il nuovo radiotelescopio dell’INAF localizzato in Sardegna».

Per saperne di più:

Guarda il servizio video su INAF-TV: