Ricordate la meravigliosa rappresentazione artistica del buco nero, sviluppata per il lungometraggio Interstellar di Christopher Nolan, anche con il contributo di numerosi esperti? Grazie a uno studio condotto da scienziati del Massachusetts Institute of Technology (MIT) e dell’Harvard-Smithsonian Center for Astrophysics gli scienziati sono sempre più vicini a produrre la prima immagine di un buco nero.
L’algoritmo è stato prodotto grazie alla raccolta di dati radio, provenienti da telescopi sparsi in tutto il mondo, nell’ambito della collaborazione internazionale chiamata Event Horizon Telescope. Il progetto si prefigge di trasformare l’intero pianeta in un unico enorme radiotelescopio. «Le onde radio presentano numerosi vantaggi», spiega Katie Bouman, dottoranda in ingegneria elettrica ed informatica presso il MIT, che ha guidato lo sviluppo dell’algoritmo. «Proprio come riescono ad attraversare i muri, passano indenni attraverso la polvere galattica. Osservando il centro della Via Lattea nella lunghezza d’onda della luce visibile non potremmo vedere nulla, perché c’è troppa polvere e la luce non riesce a superarla».
A causa della loro lunghezza d’onda, molto maggiore rispetto a quella della luce visibile, le onde radio richiedono anche antenne paraboliche di grandi dimensioni. La più grande esistente al mondo, ad esempio, misura 300 metri di diametro, e quella che la supererà, attualmente in fase di completamento, si trova in Cina e ha un’apertura totale di 500 metri. «Un buco nero è un oggetto molto lontano da noi e molto compatto», dice Bouman. «Scattare una fotografia del buco nero al centro della nostra galassia equivale a ottenere un’immagine in cui è possibile distinguere un pompelmo sulla Luna. Per ottenere una risoluzione simile nelle onde radio dovremmo poter disporre di un telescopio con un diametro di 10.000 km, il che non è pratico considerando che la Terra ha un diametro di poco superiore».
La soluzione adottata dal progetto Event Horizon Telescope è di raccogliere le misure effettuate dai radiotelescopi che si trovano in posizioni diametralmente opposte del nostro pianeta e combinarle insieme. Attualmente sono sei gli osservatori che hanno accettato di partecipare al progetto, con altri che si aggiungeranno a breve. Ma anche con il doppio di telescopi, i dati continuerebbero ad avere lacune, e lo scopo dell’algoritmo di Bouman e colleghi, che si chiama Continuous High-resolution Image Reconstruction using Patch priors (CHIRP), è proprio andare a colmare queste lacune.
Il progetto Event Horizon Telescope utilizza una tecnica, chiamata interferometria, che permette di combinare i segnali rilevati da coppie di telescopi in modo che questi interferiscano tra di loro. Normalmente un segnale astronomico raggiunge due telescopi in tempi leggermente differenti. Tener conto di questa piccola differenza è essenziale per poter estrarre informazioni visive incluse nel segnale, ma l’atmosfera terrestre può anche rallentare le onde radio, deformando le differenze nei tempi d’arrivo e influenzando il calcolo da cui dipende l’estrazione delle immagini.
Bouman ha adottato una soluzione algebrica intelligente: moltiplicando tra loro le misure raccolte da tre telescopi, i ritardi legati al rumore atmosferico si annullano tra loro. Ciò significa che ogni misura richiede dati provenienti da tre radiotelescopi, anziché due, ma l’aumento della precisione è sostanziale.
Anche filtrando il rumore atmosferico, le misure provenienti da una manciata di telescopi sparsi per il globo risultano piuttosto scarse, tanto che molte immagini differenti possono adattarsi ugualmente bene ai dati. Il passo successivo, quindi, è di ottenere un’immagine che non solo si adatti ai dati ma soddisfi anche determinati criteri su come le immagini debbano apparire. Bouman e i suoi colleghi hanno fornito un contributo sostanziale anche su questo fronte.
L’algoritmo tradizionalmente utilizzato per estrarre informazioni dai dati astronomici interferometrici presuppone che l’immagine sia un insieme di singoli punti di luce, e cerca di individuare quei punti la cui luminosità e posizione corrisponde meglio ai dati. Poi l’algoritmo fonde insieme i punti luminosi vicini tra loro per cercare di fornire continuità all’immagine astronomica. Per produrre un’immagine più affidabile, CHIRP utilizza un modello leggermente più complesso di quello a singoli punti. Si può immaginare il modello come un telo elastico coperto da coni distribuiti ad intervalli regolari, con altezze variabili ma con basi dello stesso diametro.
L’adattamento del modello ai dati interferometrici è una questione di regolazione delle altezze dei coni. Traducendo ciò che fa il modello in un’immagine visiva, è come se ricoprisse il tutto con un telo di plastica: il telo sarà più tirato quando ci sono picchi ravvicinati, e seguirà i lati dei coni adiacenti a regioni pianeggianti. L’altezza del telo corrisponde alla luminosità dell’immagine. Ovviamente i coni sono un’astrazione matematica, e l’involucro è un oggetto virtuale la cui altezza è determinata in maniera computazionale.
Infine, Bouman ha utilizzato un algoritmo di apprendimento automatico per identificare i modelli visivi che tendono a ripresentarsi in regioni di dimensioni di 64 pixel, e ha usato quelle strutture per perfezionare la ricostruzione delle immagini. Il team ha preparato un ampio database di immagini astronomiche simulate e con esse i dati che avrebbero prodotto da diversi telescopi, tenendo conto di fluttuazioni casuali del rumore atmosferico, di quello termico prodotto dai telescopi stessi e altre fonti di rumore. Il suo algoritmo è risultato spesso migliore rispetto ai suoi predecessori nel ricostruire l’immagine originale a partire dalle misurazioni, e tendeva ad avere una migliore gestione del rumore. I dati utilizzati per questa fase di test sono disponibili online.