Leave or remain? Abbandonare l’Unione europea o continuare a farne parte? Fino al prossimo giovedì, 23 giugno, nel Regno Unito la domanda è questa. E a chiederselo è anche il mondo scientifico. Seppur non equamente, accademici e ricercatori inglesi si ritrovano in parte divisi fra pro-Brexit e anti-Brexit. Negli ultimi mesi sono comparsi siti web come scientistsforbritain (pro-leave) e scientistsforeu (pro-remain), canali Twitter (ScienceBritain vs. Scientists4EU, per citarne due) e altre forme d’aggregazione – più o meno social – fra scienziati convinti dell’importanza di rimanere nella Ue e altri, invece, certi che la ricerca scientifica, nel Regno Unito, possa cavarsela meglio da sola.
Fra i primi c’è anche Stephen Hawking, il quale ha dichiarato che un’eventuale Brexit sarebbe “a disaster for UK science”. E giusto ieri – il giorno del brutale omicidio di Jo Cox, la deputata laburista anti-Brexit – sulle pagine di Nature si potevano leggere un lungo e documentato articolo, ricco di dati, sui pro e i contro dell’appartenenza alla Ue per la scienza (“Boon or burden: what has the EU ever done for science?”) e un editoriale schierato sin dal titolo (“Brexit: UK should remain”) nel quale, si sostiene, “è ora di costruire un’Europa migliore e più forte, non di demolirla”.
La BBC, chiedendosi se la Brexit potrebbe compromettere il futuro della scienza inglese, sottolinea come oltre un terzo degli scienziati che fanno ricerca a Cambridge arrivi dall’estero, e il 23 percento, in particolare, da altri stati della Ue. Fra questi ultimi c’è anche Roberto Maiolino, astrofisico di fama mondiale, in forze fino al 2011 all’Osservatorio astronomico di Roma dell’INAF e primo italiano a ottenere una cattedra al Dipartimento di fisica dell’Università di Cambridge, appunto, dove oggi insegna astrofisica sperimentale.
Professor Maiolino, l’avrebbe mai detto, quando lasciò l’Italia per Cambridge, che nell’arco di appena cinque anni si sarebbe potuta presentare una situazione come questa?
«Il Regno Unito è sempre stato un paese un po’ peculiare all’interno dell’Europa, e i britannici non hanno mai fatto segreto delle loro riserve riguardo all’Unione europea (basti pensare alla loro forte opposizione alla moneta unica), quindi il referendum non è una sorpresa inaspettata».
Com’è l’atmosfera, fra i ricercatori in generale e gli astrofisici in particolare, a una settimana dal voto?
«Ovviamente c’è molto nervosismo e molta tensione. La gran parte del mondo accademico è certamente schierata contro l’uscita dall’Unione europea. Nel mondo scientifico, dove oramai qualsiasi progetto si sviluppa con multiple interconnessioni transnazionali, lo “scenario Brexit” è anacronistico. A questa considerazione di fondo si aggiunge il timore che le agenzie governative britanniche non possano supplire il livello di supporto alla ricerca attualmente ricevuto dalla Ue, non solo in termini di finanziamenti, ma anche in termini di “indotto” e di agevolazioni di cui gode la ricerca britannica all’interno dell’Europa. Elementi, questi, che sono difficili da quantificare e da compensare».
Quali conseguenze potrebbe avere, per la ricerca in ambito astrofisico, l’eventuale uscita del Regno Unito dall’Unione Europea?
«La gran parte dei grossi progetti nel campo astrofisico in cui il Regno Unito è coinvolto sono sviluppati tramite organizzazioni (quali ad esempio Eso ed Esa) che operano su basi intergovernative, non tramite la Ue, e quindi tali progetti non dovrebbero subire un impatto a seguito di un’eventuale Brexit, quantomeno non nell’immediato. Ovviamente, però, il Regno Unito non potrebbe più partecipare ad alcuni programmi di collaborazione sponsorizzati dalla Ue, come per esempio i networks finanziati dallo European Research Council. Ma ciò che è più preoccupante è il potenziale effetto di un’eventuale Brexit sulla mobilità dei ricercatori, la quale è un fattore fondamentale nello stabilire legami forti fra diversi istituti internazionali, come pure è fondamentale per la formazione dei giovani ricercatori».
Giovedì prossimo voterà anche lei?
«No, per poter votare a referendum ed elezioni nazionali bisogna essere cittadini britannici, mentre io sono (orgogliosamente) cittadino italiano».