Il 16 luglio 1746, 270 anni fa, nacque a Ponte di Valtellina Giuseppe Piazzi, l’astronomo dell’ordine dei teatini che fu tra i grandi protagonisti dell’astronomia europea a cavallo tra Settecento e Ottocento. È conosciuto per essere stato, nel capodanno del 1801, lo scopritore di Cerere, il secondo “pianeta moderno” dopo Urano (scoperto da William Herschel vent’anni prima, il 13 marzo 1781).
Ma la fama che Giuseppe Piazzi acquisì tra gli scienziati dell’intera Europa era legata alla realizzazione del raffinato catalogo stellare Præcipuarum stellarum inerrantium positiones mediæ ineunte seculo XIX ex observationibus habitis in specula Panormitana ab anno 1792 ad annum 1802. Pubblicato nel 1803, il catalogo riporta le posizioni di 6748 stelle, di cui 1600 misurate per la prima volta, ottenute con 116000 osservazioni fatte con gli strumenti acquistati a Londra da Jesse Ramsden: il cerchio altazimutale e lo strumento dei passaggi. Il volume destò nella comunità scientifica grande meravigliosa e apprezzamento per la sua accuratezza: l’Istitute nationale de France gli conferì il premio per l’astronomia voluto da Jérôme Lalande e l’astronomo Franz Xaver von Zach lo definì “Astronomo Massimo”. La scoperta di Cerere fu, quindi, solo un “incidente” durante le sue osservazioni stellari: «Si commuove, battesi con la destra la fronte e grida trepidante: Una scoperta! una scoperta! Cerere gli era apparso!». Da quel lontano 1801 solo nelle ultime settimane la sonda Dawn ci ha restituito immagini molto dettagliate della superficie del pianeta.
Piazzi è stato anche il primo professore di astronomia dell’Università di Palermo e il fondatore dell’Osservatorio a Palazzo dei Normanni, inaugurato il 26 febbraio 1791. Nel 1817 giunse a Napoli per portare a compimento la costruzione dell’Osservatorio di Capodimonte, fondato il 4 novembre 1812. «Si tratta dei progressi della scienza, dell’onore dell’Italia e di me» scrisse Piazzi al suo amico astronomo di Brera, Barnaba Oriani, il 16 agosto del 1817. E ancora una volta von Zach, che nel 1815 aveva visitato il nuovo edificio definendolo «il Vesuvio dell’astronomia», scrisse nel 1824 una bella lettera augurando a Piazzi di condurre con sé oltre il mare la gloria e lo splendore dell’Urania Sicula fin sulla collina di Miradois per elevare agli stessi onori l’Urania Partenopea, «vostra figlia adottiva». Nel 1819 Piazzi portò a compimento i lavori e il 28 luglio 1821 accompagnò re Ferdinando di Borbone a Capodimonte per visitare «l’amena situazione dello stabilimento e l’elegante prospettiva dell’edificio […] e il pianeta di Venere, che S. M. si compiacque osservare». E come aveva fatto con la scoperta di Cerere, appellandola “Ferdinandea”, Piazzi volle dedicare al re Borbone anche l’Osservatorio di Capodimonte con un bel bassorilievo eseguito da Claudio Monti e con il motto sistemato sul frontone sotto al nome del Re: “Astronomiae Incremento” (Per il progresso dell’astronomia).
Il suo amore per la Sicilia e per il suo “santuario” nella più alta torre del Palazzo reale di Palermo indussero più volte Piazzi ad attraversare il Tirreno, perché «non una, ma due volte egli era siciliano» (prima per essere stato accolto come professore di calcolo sublime e poi come grandissimo astronomo). Ma nel 1825 scelse di rientrare a Napoli per sempre. Qui si spense una settimana dopo il suo ottantesimo compleanno.
A dispetto degli onori che scienziati e letterati gli rivolsero, sia in vita che negli anni a seguire (Jean-Baptiste Delambre parlando dell’astronomo convintamente diceva: «l’Astronomia deve più al Piazzi e al Maskelyne, che a tutti gli astronomi da Ipparco sino a noi»), Piazzi scelse di essere sepolto nella piccola chiesa dell’ordine dei teatini, a Napoli, insieme ai suoi confratelli. Solo qualche anno fa è stata posta una semplice lastra di marmo nella cripta di San Paolo Maggiore, antico tempio di Càstore e Pollùce, per ricordare «il nome di chi interrogò la Natura, e ne ottenne per risposta la verità», di colui che «colle sue meravigliose scoverte onorò l‘età nostra, mostrò anche coll’esempio più illustre come è la vera filosofia e la scienza più sublime».
Il corleonese Francesco Nascè (1764-1830), professore di eloquenza sublime all’Università di Palermo, scrisse l’epigrafe incisa sotto il ritratto dell’astronomo eseguito da Costanzo Angelini, uno dei migliori ritrattisti italiani del primo Ottocento, ora esposto nel Museo degli Strumenti Astronomici a Capodimonte: Huic coelo emenso Fernandum inscribere Divis / Et Cererem Siculis restituisse datum est (In questo cielo scrutato Ferdinando è stato iscritto tra gli dei / E Cerere è stata restituita ai siciliani).
Fra i tanti che vollero celebrare l’astronomo, il poeta Michelangelo Monti, l’archeologo Agostino Gallo, l’ingegnere Domenico Vaccolini, il chimico Humphrey Davy, solo per citarne alcuni, pronunciarono solenni discorsi e composero versi eleganti in onore di Piazzi.
Per magnificare l’uomo e lo scienziato, il palermitano Giovanbattista Cutelli (1774-1855), consigliere della Gran Corte de’ Conti, volle dedicare a Piazzi il componimento poetico che vi riproponiamo integralmente qui di seguito, con traduzione a fronte dello stesso autore. Il carme di Cutelli ha una struttura da poesia lirica formata da tre endecasillabi e un adonio di cinque sillabe. Fu pubblicato nel Giornale di scienze, letteratura ed arti per la Sicilia qualche settimana dopo la morte di Piazzi come tributo all’astronomo per aver innalzato «un monumento più durevole delle statue di bronzo, più alto delle regali piramidi».
In obitum astronomi Josephi Platii, Viri Clarissimi |
In morte dell’astronomo Giuseppe Piazzi, Uomo Illustrissimo Parafrasi italiana dello stesso dott. don Giovanbattista Cutelli, raz. della G. C. de’ conti. |
Corda dum moeror peredit, fluunique Per genas tristes lacrymae, quia urget Civem, amicum perpetuus sopor, nec Deseret unquam, Carpe plectrum Melpomene, melosque Carmini misce querulo, reliquit Nos et orbem, nec rediet, superna ad Littora Joseph. Quid tamen pro funereo canorus Mulcet aures, cordaque maesta cantus? Vera pando, insania vel beata Decipit aura? Per pios Pindi videor nova jam Mente lucos currere, quos amaenae, Aurae in aeterno subeunt, et undae Vere tepenti Sub jugo, lauri quem obeunt perennes, Gloriae sacrum ex adamante, fato Majus, et Caelo propius videtur Surgere templum. Limine aerato, rutilisque cincto Nubibus, cantu citharaque musae Ether implent, eminet inter omnes Flavus Apollo. Hinc, ait, fati procul est iniqua Lex, neque aeterno locus est sopori, Semper heroes genus hic Deorum Nectare vivent. Mille clarum sideribus corona Ornat Hipparcum, gradus atque motus Ignium, Caelique vices, viasque Jure docentem. Laude dignus, concilioque Divum est Ille, cui terrae super axe motus, Sole cui firmo, patuit simulque Annuus orbis: Qui orbis ellipsim tribuisse siguis Traditur, cui clara adeo fuit vis Solis, ut currant spatio superno Tempore menso. Laurea cinctus rutilat micanti Luce Newtonus merito, suumque Nomen incisum, sicut aere Olympo Saecula vincit: Is, velut Regno intrepidus potitur Ductor, et civi sacra jura figit, Unicus Caelum imperio gubernat Legibus aptis. Sol trahit quodvis solidum, repellit At vim iners, Caeli hinc regione curvo Ambulant flexu, varioque cursu Astra moventur. Huc ades, Joseph, Cereris coruscum Anteit sidus, sequitur nitens te Ignium octo, quos numero locasti Mille corona; Siderum motus proprii fuere Agniti tantum tibi, in axe tellus Quam subit vim, quam radius serena Lucis aberrat. Huc ades, fanum ingreditor, choroque Divum habe dignos meritis honores, Quos edax non imminuet vetustas, Aut Jovis ira. Dixit, et flamma celeri nitescunt Nubila, extemplo e superis Sicanus Advolans, Joseph, Genius perenni Fronele coronat. |
Mentre profondo il duol ci strugge il core, E largo pianto giù dagli occhi geme, Perchè letéo, ed eternal sopore L’amico preme; Prendi il plettro, o Melpomene, e ferale A mesti carmi mesci il suono, i giorni Piazzi chiuse, e lasciò la spoglia frale, Nè fia che torni. Ma, perchè invece di funebre, dolce Suona all’orecchie un’armonia sonora, Che l’abbattuto cor solleva e molce, L’alma ristora? Dico il vero o un amabile deliro L’alma mi ingombra, e con novel furore Fra le selve di Pindo erro e mi aggiro, Di me maggiore? Cinge lauro immortal l’eccelsa cima, Sacro alla gloria, e vincitor del fato Di diamante nel ciel s’ erge e sublima, Tempio beato Sulla soglia di bronzo, ove di lume Hanno le nubi glorioso ammanto, Risuona delle Muse e biondo nume Il dolce canto. Lungi, disse, da qui l’empio destino, Qui ricetto non ha sopor fatale, Qui godranno gli Eroi, germe divino Vite immortale. Orna a ragione di mille astri un serto, Al chiaro Ipparco l’onorata fronte, Se il moto a discoprir degli astri ha il merto, Dell’arte è il fonte. Di lode è degno, e del celeste impero Chi in la terra scopri sull’asse il moto, Che l’annuo giro, fermo il Sol, primiero Ebbe già noto. Chi i segni in orbe ellittico racchiuse, U’ del tempo a ragion, correr si suole Spazio del cielo, per virtù, che infuse Lucido il Sole. Cinto d’alloro, e luce sfavillante Splende Newtono, e già nel ciel scolpío Suo nome, come in bronzo od in diamante Vinto l’oblío. Unico ei regge le celesti ruote, Governa gli astri con sovrano impero, Qual, vinto un regno, dominar mai puote Prode guerriero. Gli eterei corpi il Sol attrae, rispinge Inerzia il dato impulso, indi nel vuoto. Dell’alte sfere al rotear si pinge Curva sul moto. Piazzi ti accosta, ti precede il segno Di Cerere, e ti segue alma corona D’astri ottomille, che ti fer sì degno In Elicona. Solo a te nota in l’asse della terra Fu ormai la forza, e qual negli astri induce L’intenso moto loro, e quanta aberra Del Sol la luce. Piazzi ti accosta, entra nel tempio, e in pace Abbii fra’ Numi l’onorate prove, Che strugger non potrà il tempo edace, L’ira di Giove. Disse, e repente in ciel lume sovrano Le nubi rivestì di fiamme e d’oro, E Piazzi coronò Genio sicario D’eterno alloro. |