È il 24 gennaio del 1986. Tre mesi prima del disastro di Chernobyl, tre anni prima della caduta del muro di Berlino. È venerdì 24 gennaio 1986, e la sonda Voyager 2 della NASA, lanciata nel 1977 per esplorare il Sistema solare esterno, sta compiendo il flyby del settimo pianeta, Urano, sfiorandone la superficie a una distanza – nel punto di massimo avvicinamento – di soli 80mila km. Per poi allontanarsi alla volta di Nettuno, che incrocerà tre anni e mezzo più tardi. Terminata la manovra, la sonda invia verso la Terra, insieme ai dati e alle immagini raccolte, anche le onde emesse dal radio science subsystem di bordo (RSS): segnali radio ultra-stabili il cui scopo non è trasportare dati scientifici bensì fare essi stessi scienza. Come? Venendo perturbati dal mezzo che attraversano. E consentendo così ai computer che, sulla Terra, li ricevono, di tentare di ricostruire ciò che hanno incontrato lungo il percorso. In quel caso particolare, l’interesse degli scienziati è rivolto agli anelli di Urano, un sistema di esili cerchi concentrici, d’ampiezza compresa fra 1 e 100 km, formati da particelle scurissime, con albedo geometrica attorno a 0,05.
Trent’anni più tardi, nei locali della University of Idaho a Moscow, una cittadina di 23mila abitanti nel nord-ovest degli Stati Uniti, quegli stessi dati, recuperati dagli archivi della missione, stanno scorrendo sullo schermo del computer di due astronomi: Rob Chancia, un dottorando, e Matt Hedman, professore di fisica. E mentre le cifre s’avvicendano, gli occhi allenati dei due – entrambi esperti di fisica degli anelli planetari, con una lunga esperienza alle spalle messa assieme analizzando i dati della sonda Cassini circa gli anelli di Saturno – scorgono alcune regolarità nell’irregolarità. Intravedono sequenze (pattern, in inglese) che si ripetono. Variazioni periodiche impresse sulle onde radio del radio science subsystem dall’ambiente attorno a due degli anelli di Urano: l’anello alfa e l’anello beta.
«Quando si osserva questo pattern in punti differenti attorno all’anello, si nota che la lunghezza d’onda cambia. Questo significa», spiega Hedman, «che c’è qualcosa che cambia muovendosi lungo l’anello. Qualcosa che rompe la simmetria».
Che cosa? I risultati prodotti dai due astronomi, in corso di pubblicazione su The Astronomical Journal, suggeriscono che potrebbe trattarsi di due lune. Due nuovi e minuscoli satelliti naturali – il diametro stimato è compreso fra 4 e 14 km – che andrebbero ad aggiungersi ai 27 già noti in orbita attorno a Urano. A suffragare quest’ipotesi, la stretta somiglianza del pattern intravisto del segnale radio con le scie prodotte da strutture collegate alla presenza di piccole lune – moonlet, in inglese – osservate negli anelli di Saturno. Piccole e pressoché impossibili da vedere, nel caso di Urano, a causa del materiale che le potrebbe ricoprire, estremamente scuro.
«Le lune non le abbiamo ancora viste. Ma abbiamo idea, per produrre caratteristiche come queste, debba trattarsi di lune piuttosto piccole: potrebbero facilmente esserci sfuggite», dice Hedman. «Le immagini del Voyager non erano abbastanza sensibili per vederle con facilità».
Se davvero si tratta di satelliti naturali, come altri telescopi cercheranno ora di verificare, potrebbero essere quelli che gli astronomi chiamano “satelliti pastori”: lune che con le loro orbite permettono agli anelli di mantenersi stabili. Urano ha già almeno altri due satelliti pastori, due lune dai nomi shakespeariani: Ophelia e Cordelia. L’esistenza delle due nuove lune contribuirebbe dunque a spiegare come mai anelli esili, come quello alfa e quello beta, non vengono dispersi nello spazio circostante.
Per saperne di più:
- Leggi l’articolo “Are there moonlets near Uranus’ alpha and beta rings?“, di R. O. Chancia e M. M. Hedman