In un discorso tenuto a Londra lunedì 21 novembre, all’assemblea annuale della Confederation of British Industry, la prima ministra britannica Theresa May aveva dichiarato che il suo governo era pronto a impegnarsi in un sostanziale aumento degli investimenti pubblici in ricerca scientifica e innovazione tecnologica. Aumento quantificato nella cifra di 2 miliardi di sterline (corrispondenti a 2.34 miliardi di euro al cambio attuale) annui, tetto da raggiungere a regime nel 2020, ovvero alla scadenza dell’attuale Parlamento.
L’obbiettivo dichiarato dalla premier per tale investimento è di contribuire a posizionare il Regno Unito, una volta completato il processo di uscita dall’Unione Europea sancito dall’esito del referendum del 23 giugno scorso sulla cosiddetta Brexit, all’avanguardia per quanto riguarda scienza e tecnologia, particolarmente in settori avanzati quali robotica, intelligenza artificiale e biotecnologia.
Le prime reazioni degli scienziati britannici sono state positive, come si può leggere nelle dichiarazioni raccolte dallo Science Media Centre, in attesa comunque di conoscere i dettagli della misura economica. Dettagli che sono stati forniti ieri dal ministero del tesoro britannico nella presentazione al Parlamento dello Autumn Statement, uno degli usuali documenti di programmazione economica e finanziaria.
Per decifrare il documento, abbiamo chiesto aiuto ad Alessandro Allegra, da diversi anni consulente in politiche della scienza a Londra e attualmente al Department of Science and Technology Studies dell’University College London.
Allegra, da dove partiamo?
«Come premessa generale occorre ricordare che la Gran Bretagna ha una spesa per ricerca e sviluppo, in proporzione al Pil, abbastanza bassa rispetto agli altri paesi sviluppati del G8 o dell’Ocse: 1.7% del Pil, ben al di sotto del quasi 3% della Germania. Inoltre, in occasione dei grossi tagli alla spesa pubblica effettuati dal governo precedente nel 2010, la ricerca scientifica se l’è cavata “non malissimo”, non subendo tagli ma un congelamento a livello nominale dei fondi. Lo stanziamento attuale è quindi a livello di quello del 2010. Poi non dobbiamo scordare anche la profonda riforma dell’università in atto in Gran Bretagna».
Cambia qualcosa con il nuovo documento di programmazione?
«Questo è il primo budget presentato dal governo May e segna un po’ un punto di rottura con la pianificazione del precedente governo Cameron, che mirava a ridurre il deficit pubblico. L’attuale governo si trova a dover attuare la Brexit, un orizzonte totalmente diverso. Il piano annunciato ora, curiosamente senza mai citare esplicitamente la Brexit, è di investire nella crescita del paese. Tra i vari annunci c’è un grosso piano di sviluppo industriale, una pianificazione governativa tesa a riattivare il settore industriale della Gran Bretagna, di cui questa spesa in ricerca e sviluppo fa parte. In totale il governo ha impegnato per questo piano 23 miliardi di sterline, nel periodo da oggi al 2020-21, di cui 2 miliardi sono per le attività di ricerca e sviluppo».
Come verranno spesi e a chi verranno dati questi soldi?
«Intanto va detto che è un grosso impegno, nel senso che rappresenta un notevole aumento dell’investimento pubblico nella ricerca in Gran Bretagna che, a regime nel 2020, arriverà a qualcosa nell’ordine del 23% in più della spesa attuale. I finanziamenti non verranno distribuiti a pioggia, ma verranno mirati a certe iniziative molto specifiche; in particolare verranno spesi quasi tutti per l’innovazione tecnologica. Quindi non nella ricerca di base ma, in larga parte, nel trasferimento tecnologico. Si parla di un programma di ricerca modellato sull’esempio dell’agenzia DARPA statunitense. I dettagli ancora non si sanno, ma l’idea è quella di un fondo per la ricerca mirata a risolvere problemi specifici in alcune settori avanzati individuati dal governo. Probabilmente avrà anche un qualche tipo di dimensione regionale, per evitare che tutto finisca tra Londra, Oxford e Cambridge».
C’è altro?
«È stata annunciato anche una rivalutazione degli incentivi fiscali per chi fa ricerca e sviluppo nel settore privato. Vari analisti si aspettano che questo investimento pubblico stimoli ulteriori investimenti privati, portando la spesa totale per la ricerca e sviluppo da 1.7 a 2% del Pil. Inoltre, il governo ha promesso una consultazione allargata, anche alla comunità scientifica, sull’individuazione delle priorità».
Una sua opinione personale su questa “manovra”?
«Secondo me dimostra una chiara volontà da parte del governo di investire per il futuro economico del paese nell’industria ad alto contenuto tecnologico e innovativo, perché certo la Gran Bretagna non tornerà a produrre carbone o acciaio. E dimostra anche una capacità di ascoltare chi si trova sul fronte della ricerca, cioè chi l’innovazione la fa; un approccio abbastanza sofisticato, non puramente politico, molto ben ricevuto dal grosso della comunità scientifica».
Una misura che può mitigare gli effetti negativi paventati da molti scienziati britannici sugli effetti della Brexit?
«Sì e no. Nel senso che la comunità scientifica chiedeva da anni un aumento delle risorse, a prescindere dalla Brexit. Ma questo indubbio passo in avanti non dissolve automaticamente gli scenari di incertezza che la Brexit ha aperto».