Il motto dice “sbagliando s’impara” e questo non vale soltanto per le nostre esperienze di vita, bensì anche per la scienza. C’è da dire che il metodo scientifico prevede la presenza di errori al fine di arrivare al risultato, e la storia è piena di esempi. Superare gli errori sistematici (che nel linguaggio tecnico vengono definiti bias) accumulati nel corso di decenni di ricerca è un lavoro impegnativo, ma non impossibile. I geofisici della Michigan Technological University hanno trovato un modo per superare gli ostacoli nello studio della storia della nucleo e del campo magnetico terrestre analizzando di nuovo campioni di roccia già studiati in passato.
Dato che non viviamo in un romanzo di Jules Verne o in un film di fantascienza, non è ancora tecnicamente possibile arrivare agilmente fino al caldissimo nucleo (core) del nostro pianeta. Per studiarne la composizione e la storia, si raccolgono e analizzano campioni di rocce vulcaniche, facilmente reperibili sulla superficie. Rocce che portano anche la memoria dell’intensità del campo magnetico all’epoca in cui si sono prodotte, risalendo indietro nel tempo fino a primi giorni di vita della Terra, quando si stava sviluppando la geodinamo, cioè il meccanismo che genera e tiene vivo il campo magnetico terrestre mediante convezione e conduzione delle correnti nel nucleo fluido.
Il problema riscontrato dai geofisici è che la maggior parte dei dati raccolti da queste vecchie rocce possono essere oggetto di bias, cioè di errori sistematici. Nello studio, pubblicato su Science Advances, il gruppo di ricercatori della Michigan Tech delinea come si accumulano questi “errori” e che cosa fare al riguardo.
Gli esperti fanno l’esempio del periodo giurassico, quando i dinosauri erano solo l’ultimo dei problemi in confronto agli alti livelli di anidride carbonica e ai frequenti capovolgimenti del campo magnetico ai poli. I dati raccolti dai campioni di roccia ci presentano, infatti, una fotografia diversa rispetto a quella teorizzata dai modelli della geodinamo interna al nostro pianeta: sembrerebbe che più era variabile il campo magnetico e più la sua intensità sia scemata.
Per i ricercatori è stato difficile confrontarsi con i dati provenienti dai campioni raccolti sul campo, che finora non hanno mostrato una correlazione tra le inversioni magnetiche e la forza dei campi magnetici del passato. Aleksey Smirnov, a capo dello studio, ha spiegato che il bias è dovuto al metodo di Thellier, la tecnica di datazione solitamente utilizzata per l’analisi dei campioni di roccia in ambito paleomagnetico. «Potrebbe essere necessario rivedere i dati raccolti in precedenza», spiega Smirnov. Nella nuova ricerca, il suo team ha prima di tutto testato l’errore sistematico su campioni sintetici (cioè creati in laboratorio), perché «quando si lavora con rocce naturali è difficile separare gli effetti e le alterazioni dei “granelli non ideali”».
Dato che la maggior parte delle rocce contengono granelli non ideali molto più grandi di quelli richiesti dal metodo di Thellier, le trame sono deformate e non possono essere utilizzate durante le analisi senza incorrere in bias. I ricercatori tendono ad utilizzare solo una parte della trama per valutare meglio la relazione lineare. Questo produce costantemente misure diverse da quelle attese e quindi errori sistematici.
Nel nuovo studio, Smirnov e colleghi spiegano che per raccogliere un set di dati migliore bisognerebbe utilizzare la tecnica della demagnetizzazione a basse temperature, sfruttando comunque il metodo Thellier. Il gruppo di Smirnov procede immergendo il campione di roccia in azoto liquido, in un ambiente privo di campo magnetico, lasciando poi tornare naturalmente il campione a temperatura ambiente prima di sottoporlo alle misure col magnetometro. La procedura, secondo i ricercatori, permette di stabilizzare il campione.
Per saperne di più:
- Leggi su Science Advances lo studio “Intrinsic paleointensity bias and the long-term history of the geodynamo”, di Aleksey V. Smirnov, Evgeniy V. Kulakov, Marine S. Foucher e Katie E. Bristol