Comodamente sdraiati nel posto più buio che troviamo, guardiamo le stelle e pensiamo…
Sono tante le domande che sorgono spontanee. Per molte non abbiamo risposte, ma per alcune i risultati dell’astrofisica moderna offrono squarci di comprensione.
Mentre non possiamo certo pretendere di sapere chi siamo? da dove veniamo? dove andiamo? Siamo in grado di dire dove siamo. Nel corso dei secoli, tra difficoltà e passi falsi, abbiamo imparato a misurare la nostra posizione sulla Terra, poi le distanze relative dei pianeti nel sistema solare, per passare alla galassia e al resto dell’universo. Ad ogni passo abbiamo dovuto lottare contro l’antropocentrismo che ci contraddistingue e ci suggerisce sempre di metterci al centro di tutto, sia che si tratti del sistema solare, sia che si tratti della Galassia, sia che si tratti dell’universo. È una storia affascinante dove si mescolano filosofia, geografia, misura del tempo e misura dello spazio che potete seguire nella Storia del Dove scritta a quattro mani da Tommaso Maccacaro e Claudio Tartari.
Tornando alle domande alle quali siamo in grado di dare una risposta, ce n’è una che io ritengo fondamentale: abbiamo capito qual è la relazione tra noi e le stelle. Si tratta di un legame stretto al quale dovremmo pensare più spesso dal momento che, senza le stelle, noi non ci saremmo. La cosmologia ci dice che, all’inizio dei tempi, nel momento in cui tutto è cominciato c’era solo una insipida zuppetta di idrogeno e poco altro. Sono state le stelle a sintetizzare gli elementi dei quali siamo fatti noi attraverso le fornaci termonucleari che sono in grado di fare funzionare al loro interno.
Agendo con tranquilla meticolosità, prima trasformano l’idrogeno in elio, poi, con un trucco di gran classe, uniscono tre atomi di elio per fare il carbonio, è da lì continua il lego cosmico che produce l’ossigeno, l’azoto e così via fino al ferro. Per andare oltre il ferro, però, le stelle non bastano, hanno avuto bisogno dell’aiuto di una supernova: è nelle condizioni estreme dell’esplosione che si possono formare l’oro, il platino, il palladio, il titanio, l’uranio.
Tutti questi elementi vengono poi rilasciati nel mezzo interstellare e contribuiscono alla nascita di nuove stelle, come il nostro Sole che è nato, circa 5 miliardi di anni fa, circondato da un disco di gas, acqua e polveri , dal quale si sono formati i pianeti. Per secoli abbiamo pensato di essere un caso unico, poi la situazione è cambiata di colpo nel 1995, quando due astronomi svizzeri hanno scoperto il primo pianeta extrasolare.
Da allora Il numero dei pianeti extrasolari non ha mai smesso di crescere e, negli ultimi anni, abbiamo assistito ad una vera e propria esplosione, grazie ai risultati della missione Nasa Kepler. Degli oltre 5000 pianeti che abbiamo rivelato sappiamo il periodo orbitale, la massa e, in molti casi, le dimensioni. Con grande sorpresa abbiamo scoperto in gran numero di mini Nettuni, pianeti con massa intermedia tra la terra e Nettuno, che nel sistema solare non esistono, a sottolineare il fatto che il nostro sistema planetario è uno dei tanti, non certo il prototipo o l’esempio da imitare.
Questi numeri testimoniano in modo eloquente che il processo di formazione planetaria si è ripetuto innumerevoli volte, intorno a pressoché tutte le stelle che abbiamo studiato tanto che stimiamo che, grossomodo, ogni stella abbia almeno un pianeta e che una stella su cinque abbia pianeti con massa non troppo diversa da quella della terra.
Diverse decine di questi pianeti “terrestri” orbitano nella zona abitabile della loro stella, cioè a una distanza tale che l’energia che ricevono è tale da permettere, in linea di principio, l’esistenza dell’acqua liquida in superficie.
Ovviamente, avere una temperatura vagamente accettabile è solo un buon punto di partenza ma non dobbiamo mai dimenticare che abitabile non significa abitato. Sulla Terra la vita si è sviluppata grazie alla combinazione di molti fattori (quali campo magnetico e tettonica a zolle) che sono impossibili da valutare da lontano.
Non possiamo dire di essere in grado di rispondere alla domanda se siamo soli nell’Universo, ma certo abbiamo fatto passi avanti giganteschi. I grandi strumenti del futuro ci permetteranno di affinare la nostra capacità di rivelare la firma della presenza di vita (simile a quella che conosciamo) su altri pianeti grazie allo studio della composizione delle loro atmosfere. Trovare ossigeno, un gas molto aggressivo che reagisce con tutto e deve essere prodotto in continuazione per esistere libero nell’atmosfera, sarebbe un indizio molto importante. Se poi si trovasse anche una solida presenza di metano, allora le probabilità che su quel dato pianeta ci sia qualche forma di vita elementare diventerebbe più elevata. Sono questi i gas che segnalerebbero ad astronomi alieni la nostra presenza sulla Terra.
Ovviamente, nella nostra ricerca della vita 2.0 non ci vorremmo fermare ad alghe e licheni, ci piacerebbe trovare la prova dell’esistenza di altre forme di vita intelligenti. Qui entra il gioco il progetto Seti che cerca un segnale radio di origine non naturale nei dati raccolti da tutti i radiotelescopi del mondo. Non è ancora stato trovato nulla di interessante, ma la ricerca è “appena” cominciata.
Più significativo potrebbe essere il contributo del prossimo grande progetto di radioastronomia lo Square Kilometer Array (Ska), così grande da essere equivalente ad una antenna di un chilometro di diametro. Grazie alla sua straordinario sensibilità, puntando le sue antenne verso stelle vicine, SKA sarebbe in grado di rivelare il segnale prodotto da radar dalle caratteristiche simili a quelli usati dalle torri di controllo dei nostri aeroporti per gestire il traffico aereo. Sarebbe una bella prova dell’esistenza di vita evoluta da qualche parte nella galassia.
Non sappiamo quale sia la probabilità di trovare ET ma è sicuro che, se non ci impegneremo nella ricerca, non lo troveremo mai. E sarebbe un grande peccato