Ricreare in laboratorio veri e propri buchi neri è – almeno per ora – al di fuori della nostra portata, ma ai Sandia Labs di Albuquerque, New Mexico, ci sono andati molto vicino: hanno riprodotto le condizioni fisiche presenti nei dischi di accrescimento che li circondano. Un’impresa complicata, che ha impegnato i ricercatori per oltre cinque anni, ma con un esito tutt’altro che scontato: i risultati dell’esperimento, pubblicati questo mese su Physical Review Letters, mettono in discussione alcune fra le teorie più condivise su ciò che avviene in questi dischi di materia.
«La nostra ricerca suggerisce che sarà necessario rimettere mano a molti articoli scientifici pubblicati negli ultimi vent’anni», dice senza mezzi termini il primo autore dello studio, Guillaume Loisel, dei Sandia National Laboratories. «I risultati che abbiamo ottenuto mettono in crisi i modelli attualmente usati per calcolare la velocità con la quale i buchi neri ingurgitano materia dalla loro stella compagna».
Il meccanismo messo in discussione dai dati sperimentali ottenuti con la Z machine di Albuquerque, a oggi il più grande generatore di raggi X al mondo, è noto fra gli esperti come “Resonant Auger Destruction”. Un processo ritenuto responsabile di un’anomalia riscontrata nell’analisi spettrale dei dischi di accrescimento: l’assenza di alcune righe d’emissione del ferro ionizzato. Assenza che potrebbe essere spiegata, appunto, tramite un effetto scoperto dal fisico francese Pierre Victor Auger nel 1923 (in parte preceduto dalla fisica Lise Meitner). Tuttavia, i ricercatori dei Sandia Labs, riproducendo con la Z machine raggi X energetici quanto quelli che circondano i buchi neri e indirizzandoli su una pellicola di silicio, hanno verificato sperimentalmente che l’assenza di quelle righe spettrali non è spiegabile con la Resonant Auger Destruction.
«Le misure di laboratorio dimostrano come i fotoni X aspettati da una serie di elementi ionizzati debba essere presente, e non “messa sotto il tappeto” da un processo in competizione, in cui è l’elettrone a fuggire via portandosi l’energia della diseccitazione dell’atomo», spiega a Media Inaf Luigi Piro dell’Inaf Iaps di Roma, esperto di astrofisica delle alte energie e responsabile del progetto europeo Ahead, al quale abbiamo chiesto un commento sul risultato ottenuto con la Z machine.
Ma importante almeno quanto il risultato scientifico in sé, in questa storia, è il modo in cui è stato ottenuto. «L’esperimento condotto ai Sandia Labs è emozionante», sottolinea infatti uno dei coautori dello studio, Tim Kallman, astrofisico al Goddard Space Flight Center della Nasa, «perché mai prima d’ora si era andati così vicini a creare un ambiente che riproduca ciò che accade nei dintorni di un buco nero».
«L’articolo dimostra come sia importante sostenere la ricerca astrofisica in raggi X e gamma con test in grandi facilities a terra, come stiamo attuando con Ahead, il grande progetto di infrastrutture della comunità europea a guida Inaf. Ciò diventerà tanto più importante», aggiunge Piro, «con la missione Athena, che fornirà spettri di sorgenti in raggi X – tra cui buchi neri e stelle di neutroni – con una risoluzione spettroscopica elevatissima per un numero di sorgenti ed elementi (come silicio, zolfo e ferro) mai ottenuti prima. Sarà pertanto necessario adeguare la teoria di emissione atomica dei raggi X con misure in laboratorio: uno degli obiettivi del futuro Ahead in Europa».
Per saperne di più:
- Leggi su Physical Review Letters l’articolo “Benchmark Experiment for Photoionized Plasma Emission from Accretion-Powered X-Ray Sources”, di G. P. Loisel, J. E. Bailey, D. A. Liedahl, C. J. Fontes, T. R. Kallman, T. Nagayama, S. B. Hansen, G. A. Rochau, R. C. Mancini e R. W. Lee