Vi siete mai chiesti, osservando immagini di satelliti o sonde, perché queste vengano lanciate nello spazio avvolte in quella che sembra una specie di carta stagnola dorata, dandogli l’aspetto simile a quello di un celebre cioccolatino? In realtà questi materiali – generalmente conosciuti come come Multi-Layer Insulation (Mli) – vengono applicati alla superficie delle sonde come isolante termico, al fine di proteggere i delicati componenti elettronici interni.
Per saperne di più, abbiamo intervistato Luca Terenzi, ricercatore all’Inaf Iasf di Bologna. Terenzi ha partecipato al design, sviluppo, ground testing e operazioni in volo del telescopio spaziale Planck, curando in particolare gli aspetti termici e criogenici dello strumento Lfi, e attualmente collabora alla progettazione termica di proposte di future missioni spaziali e al design e test di strumentazione per astrofisica da terra.
Che scopo ha questo materiale dorato in cui sono avvolte le apparecchiature? E da cosa è composto?
«Lo scopo del materiale che ricopre lo spacecraft è principalmente quello di mantenere l’ambiente termico delle apparecchiature entro gli intervalli in cui il funzionamento è assicurato, e di proteggerlo dall’impatto di micrometeoriti. Nel caso dell’involucro “dorato” che si vede nelle immagini di Cassini, si tratta di una copertura multistrato di vari materiali, piccole pellicole estremamente leggere, fra i quali una materia plastica, molto usata in questo tipo di applicazioni, denominata Kapton. Alcuni strati del “lenzuolo” (blanket) sono di Kapton alluminato, ma sono presenti anche molti altri materiali, per esempio il Mylar alluminato: un materiale riflettente argentato che esposto direttamente a radiazione ultravioletta si può danneggiare».
Perché proprio giallo-dorato piuttosto che argentato?
«Il colore è quello proprio del Kapton, selettivo sulle lunghezze d’onda solari. Le proprietà ottiche di questi materiali sono pensate, tra le altre cose, per le lunghezze d’onda del Sole, che ha il picco nella parte visibile dello spettro».
Ma come mai, se lo spazio è così freddo, la dissipazione del calore è un problema così grande? Le nostre macchine ad esempio, hanno un radiatore: non si può usare la stessa strategia nello spazio?
«La dissipazione del calore è un grosso problema, perché si ha l’esigenza opposta a quella che hanno i motori delle nostre macchine, ovvero si rischia di diventare troppo freddi; infatti gran parte dell’elettronica presente soprattutto nei moduli di servizio dei satelliti è molto simile a quella standard che viene usata a terra, quindi funzionante in un range di temperature centrate intorno alla temperatura media terrestre. Gli ambienti estremi che un satellite può trovare in orbita possono facilmente portare la temperatura dei componenti troppo in alto o troppo in basso. Bisogna oltretutto considerare che nello spazio si è in condizione di vuoto, per cui l’unico meccanismo con cui scambiare calore con l’esterno consiste nell’irraggiamento. Gli altri due meccanismi di trasmissione del calore – conduzione e convezione – non possono avere luogo senza un fluido (come l’aria sul nostro pianeta) tramite cui si possa trasmettere calore tramite convezione, ed essendo sistemi isolati i satelliti non sono a contatto con alcun materiale verso cui il calore possa propagarsi tramite conduzione. Per regolare l’equilibrio termico di un satellite si può solo intervenire sullo scambio radiativo».
La microgravità in cui si trovano questi oggetti è un’altro fattore da considerare riguardo alla dissipazione del calore?
«No, questo è un fattore che non influenza in modo rilevante questi aspetti. Nella mia esperienza bisogna confrontarsi con i problemi della microgravità solo laddove si vada a progettare sistemi di raffreddamento attivi: ad esempio, per qualsiasi tipo di liquido criogenico (come l’idrogeno liquido) in orbita, bisognerà trovare metodi per tenere tale liquido localizzato e confinato, e in contatto con la superficie da raffreddare».
La quantità o il colore di questo materiale cambino a seconda della destinazione della sonda? Per esempio, in base alla sua distanza dal Sole?
«Sì, ovviamente la finitura e la composizione della superficie esterna di un satellite, per i motivi che abbiamo detto prima, sono influenzati dall’ambiente radiativo in cui si opera. Quindi la vicinanza o l’esposizione al Sole influenza, non tanto la quantità o il colore di questo materiale, quanto la scelta del materiale stesso: essenzialmente, si deve scegliere se un materiale debba essere riflettente o meno e se debba esserlo in assoluto o esclusivamente rispetto alla luce solare. Il viaggio di Cassini verso Saturno è stato abbastanza elaborato e lo ha portato prima in un ambiente più vicino al Sole – nei suoi transiti presso Venere – e poi a raggiungere la sua meta finale in un ambiente più remoto del sistema. La scelta dei materiali di rivestimento è stata quindi dettata dalla necessità di rispettare requisiti molto ampi».
Com’è possibile che strati di materiale così sottili resistano alle grandi velocità nello spazio? Cosa può succedere se venissero in contatto con piccoli frammenti di materiale?
«Essendo nel vuoto, non ci sono particolari problemi legati alla velocità, mentre l’impatto con micrometeoriti o detriti è un fenomeno di cui bisogna tener conto nel progettare la navicella. La strategia è quella di assicurarsi che le prestazioni dei materiali rispettino con grande margine i requisiti, e se ne stimano le performance nei cosiddetti scenari di “inizio vita” o “fine vita”; in quest’ultimo si tiene conto, appunto, dei vari contributi di degrado del materiale. In ogni caso superfici particolarmente esposte vengono protette con materiali adeguati. Esistono anche materiali specifici per offrire questo tipo di protezione, come il Beta cloth, presente anch’esso negli strati che avvolgevano Cassini».
Quali differenze di calore deve poter sopportare una sonda tra il suo lato esposto al sole e quello in ombra? E quali temperature possono essere sopportate dai suoi componenti elettronici?
«Nella vita di una missione – come ad esempio quella su cui ho lavorato io, Planck – in regime stazionario, e solo sotto l’effetto dell’irraggiamento solare, la parte esposta al sole si trovava a circa 120-130 gradi centigradi, mentre quella esposta allo spazio freddo attorno ai -230 gradi. Della temperatura di funzionamento dei componenti elettronici standard abbiamo già detto; la strumentazione scientifica a bordo invece dipende dagli scopi della missione, e i sensori per osservazioni astrofisiche hanno temperature operative che vanno dalla temperatura ambiente terrestre a temperature prossime allo zero assoluto, meno di -270° C. In tal caso, bisogna pensare a sistemi di raffreddamento dedicati molto avanzati».