Uno dei risultati più spettacolari dell’astrofisica del secolo scorso è stata la scoperta dell’espansione dell’Universo. La conosciamo come legge di Hubble ma è la somma del lavoro di molti, primo fra tutti l’abate Lemaitre. Tuttavia fu Hubble a costruire il semplicissimo grafico dove riportava su un asse le distanze delle galassie e sull’altro le loro velocità. Era il 1929 e, con poche decine di galassie osservate in modo approssimativo, Hubble seppe intuire una profonda verità: le galassie sembravano allontanarsi con una velocità che è proporzionale alla distanza. Quelle più lontane si muovono con velocità sempre più grandi. In effetti, oggi sappiamo che è lo spazio che si espande e le galassie non possono fare altro che seguire questo moto universale. Ad Einstein non piacque per niente e ci mise del tempo ad accettare questo fatto.
L’esistenza dell’espansione ha implicazioni profondissime perché ci dice che l’Universo ha avuto un inizio, quando lo spazio ha iniziato a crescere e il tempo ha cominciato a scorrere. Stiamo parlando di uno dei pilastri della cosmologia moderna: nessuno dubita della sua veridicità ma ci sono state dispute infinite sull’entità dell’espansione. La proporzionalità tra velocità e distanza è un aiuto fondamentale per gli astronomi che, data una quantità, possono ricavare l’altra. Infatti, mentre la distanza di un oggetto celeste è notoriamente difficile da misurare, la sua velocità può essere stimata direttamente misurando lo spostamento delle righe presenti nello spettro della luce che emette. La conoscenza precisa della costante di proporzionalità, la famosa costante di Hubble, è quindi di fondamentale importanza.
I cosmologi, scherzosamente descritti come una genia di scienziati “often in error, never in doubt” (spesso in errore, mai in dubbio) si sono insultati sanguinosamente per decenni a proposito dell’esatto valore della costante che, legando velocità e distanza, ha le dimensioni di una velocità (km al sec) diviso una distanza (che gli astronomi misurano in Megaparsec).
Sbagliando clamorosamente, Hubble stimò il suo valore in 500, cosa che implicava che l’universo avesse poco più di 2 miliardi di anni, un’età inferiore a quella delle stelle più vecchie che conosciamo. Quando entrò in funzione il telescopio di Monte Palomar, la qualità dei dati migliorò decisamente e il valore scese, ma non in modo univoco. La comunità astronomica si divise tra coloro che sostenevano che la costante di Hubble fosse 100 e quelli che preferivano il valore di 50. Ci sono voluti lunghi programmi dedicati dello Hubble Space Telescope, coordinati con tenacia da Wendy Freedman, per ridurre gli errori e sedare gli animi, facendo convergere i valori al numero magico di 72, recentemente aggiornato a 73,24.
La pace cosmologica ha avuto vita breve perché, nel frattempo, era stato sviluppato un modo indipendente di calcolare la costante di Hubble partendo dalle mappe del rumore cosmico di fondo, quello che resta del primo vagito dell’Universo. E’ una mappa molto importante perché contiene informazioni preziose sulla geometria dell’Universo che è direttamente legata alla massa totale. E’ esaminando la mappa del fondo cosmico che abbiamo capito che siamo azionisti di minoranza in un Universo dominato da componenti ignote, quindi oscure. Le stelle, le galassie e tutto ciò che è fatto della materia della quale siamo fatti noi arriva a malapena al 5% del totale della materia che viene mappata dalla geometria. Il 25% è dovuto a materia che pesa ma non sappiamo cosa sia, mentre il restante 70% è oscuro di nome e di fatto.
Il satellite europeo Planck, forte della mappa più precisa mai ottenuta del rumore di fondo del cielo, ha assegnato alla costante di Hubble il valore di 67,8. Gli errori di misura sono molto piccoli e la differenza tra 73,24 e 67,8 non può essere ignorata. Visto che si tratta di valori ottenuti da due gruppi indipendenti utilizzando dati completamente diversi, è legittimo chiedersi se non ci sia qualche errore nascosto nell’analisi dei dati, errore che deve essere sottile perché è sfuggito a innumerevoli verifiche.
I planckiani sostengono che l’errore l’hanno fatto gli ottici e dicono che riprenderanno in mano tutti i dati dello Space Telescope per rifare l’analisi dall’inizio. Wendy Freedman, invece, confessa che sperava di potersi occupare di qualche altro problema, ma non si tira certo indietro. Così progredisce la scienza.
D’altro canto, è possibile che entrambi i gruppi abbiano ragione e che sia invece l’espansione e giocare qualche brutto scherzo, obbligandoci ad esplorare nuovi orizzonti. Dopo tutto, lo Hubble Space Telescope misura l’espansione in epoche “recenti” mentre Planck la misura quando l’Universo aveva appena 380.000 anni, un’inezia rispetto ai 13,7 miliardi di anni attuali. Se accettiamo questa visione, ci troveremmo a vivere in un Universo che ha premuto sull’acceleratore. Dal momento che, per accelerare qualcosa bisogna spingere, cosa potrebbe fornire l’energia necessaria? Il pensiero va subito alla parte più misteriosa del nostro Universo, che è anche la parte maggioritaria, quella che noi chiamiamo energia oscura. Variando la quantità dell’energia oscura in funzione dell’età dell’Universo si potrebbe spiegare la differenza nelle misure ottenute in diverse epoche. Giusto quello che ci voleva per ravvivare il fuoco che covava sotto le ceneri e fare ripartire le dispute tra i cosmologi.
Se vi siete persi nell’oscurità di questa affascinante storia, potreste trovare uno spiraglio di luce nel libro l’Universo Oscuro di Andrea Cimatti che ha fatto prodigi di valore per rendere comprensibile un argomento veramente difficile. Con un linguaggio molto chiaro, di chi si è spesso trovato a spiegare queste tematiche al grande pubblico, Andrea parte dalla contemplazione di una notte stellata per arrivare a fare apprezzare al lettore la complessità del sistema che noi ammiriamo e cerchiamo di capire. Ci sfugge il 95% di ciò che lo compone, ma ci stiamo lavorando.