Osare o mantenersi prudenti? Questo è il dilemma. Dilemma che ha aperto il dibattito sulle pagine della rivista di settore Astrobiology. Il “settore” è quello della vita extraterrestre, e a essere messe in discussione sono le rigide norme della Planetary Protection, sottoscritte da tutte le agenzie spaziali per scongiurare il rischio di contatto fra ambienti o forme di vita aliene e contaminanti biologici e organici terrestri. Detto altrimenti, impedire che qualche batterio o altro abitante della Terra, salito clandestinamente a bordo di una missione robotica, finisca per colonizzare altri mondi con il suo Dna tutt’altro che alieno, per poi magari venire “scoperto” e scambiato per un extraterrestre.
Nel caso di Marte, in particolare, la Planetary Protection ha individuato alcune zone con il bollino rosso: sono le cosiddette “Special Regions”, aree in cui può esserci acqua allo stato liquido. E ha sancito che possono accedervi solo missioni robotiche e manufatti di “categoria IVc”: lander e rover ultrapuliti, insomma. Dove essere “ultrapulito” significa soddisfare requisiti di sterilizzazione estremamente severi. Ed estremamente costosi.
Ora però c’è chi chiede un allentamento della normativa. È la posizione di Alberto Fairén (Centro di Astrobiologia di Madrid) e colleghi, che in “Searching for Life on Mars Before It Is Too Late” sollevano un dubbio: non è che con questi vincoli così stringenti, che di fatto ci impediscono di cercare la vita marziana là dove è più probabile che si trovi, finiamo con rimandare la scoperta fino a quando non sarà troppo tardi? Ovvero quando sbarcheranno le missioni umane su Marte, rendendo a quel punto pressoché inevitabile – dicono gli autori dello studio – una contaminazione? A questo punto, meglio concedere al più presto un lasciapassare anche ai robot un po’ più sporchi, scrivono. Ma altri astrobiologi non sono d’accordo, e il loro punto di vista è illustrato in un altro articolo, sempre su Astrobiology, firmato questa volta da J.D. Rummel e C.A. Conley (Seti Institute il primo, Nasa il secondo).
«Le critiche alle regole della Planetary Protection, accusate di essere troppo rigide e di aumentare enormemente i costi delle missioni spaziali, non sono una novità», ricorda a Media Inaf Maria Teresa Capria, planetologa all’Inaf Iaps di Roma, alla quale ci siamo rivolti per un commento, «e Rummel e Conley ribattono in modo efficace spiegando come questi costi non aumentino poi così tanto».
«Le affermazioni contenute nell’articolo di Fairén e colleghi mi sembrano comunque in generale poco condivisibili», continua Capria, «in particolare quando sostengono che non sarebbe difficile discriminare tra forme di vita di provenienza terrestre e forme di vita marziane: ricordiamoci, quando parliamo di vita, che ne conosciamo un unico esempio: quella che si è sviluppata sulla Terra. Anche la certezza che fra vent’anni l’uomo camminerà su Marte mi sembra, purtroppo, poco condivisibile. Ci auguriamo tutti che sia così, ma, come fanno notare Rummel e Conley, non esistono piani davvero concreti e a prova di mutamenti politici per inviare l’uomo su Marte. Insomma, io voto per Rummel».
Per saperne di più:
- Leggi su Astrobiology l’articolo “Searching for Life on Mars Before It Is Too Late”, di Alberto G. Fairén, Victor Parro, Dirk Schulze-Makuchn e Lyle Whyte
- Leggi su Astrobiology l’articolo “Four Fallacies and an Oversight: Searching for Martian Life”, di J.D. Rummel e C.A. Conley