A VOLTE UN PO’ SFOCATO È QUASI MEGLIO

Tecniche d’osservazione per pianeti extrasolari

Il cosiddetto ”defocusing”, distribuendo la luce su una superficie maggiore, permetterebbe di raggiungere precisioni molto elevate, ed è utile nel caso dei telescopi spaziali. Ne parliamo con Roberto Ragazzoni dell'Inaf di Padova, membro del board di Cheops

     16/10/2017

Diffusore e relativo schema ottico. Crediti: RPC Photonics

È stato pubblicato il 5 ottobre scorso su The Astrophysical Journal un articolo che attesta la precisione delle misure ottiche raggiungibili da Terra per l’osservazione di esopianeti grazie all’utilizzo di un dispositivo ottico testato da un gruppo di astronomi della Penn State University. Il dispositivo oggetto di studio – tecnicamente un beam-shaping diffuser, prodotto nei laboratori della Rpc Photonics di Rochester (New York) – è un micro-componente ottico con il compito di distribuire la luce, proveniente dalla stella, su una superficie del sensore ottico maggiore di quella che coprirebbe senza diffuser.

Il test del dispositivo è stato condotto al telescopio Hale dell’Osservatorio Palomar, in California, al telescopio da 0.6 m Davey Lab Observatory della Penn State University e al telescopio Arc da 3.5 m dell’Apache Point Observatory, in New Mexico.

Ma perché “sparpagliare la luce” dovrebbe portare un beneficio alla qualità delle immagini?

A rovinare la qualità delle immagini da terra intervengono svariati fattori. In primis, costituisce un grande problema per gli astronomi e per chi progetta i telescopi l’atmosfera, che deteriora il seeing della immagini (è la distorsione che si cerca di correggere con i sistemi di ottica adattiva). A parte i problemi relativi alla scintillazione del cielo – che riguardano solo le osservazioni da terra – rimane l’errore introdotto dalla disomogeneità nella risposta dei pixel del rivelatore, i quali non rispondono tutti allo stesso modo alla luce. Questo errore aumenta se la misura è basata su pochi pixel ma diminuisce proporzionalmente se si riesce a mediare la misura su un grande numero di pixel, compensando così statisticamente gli errori dei singoli pixel e ottenendo una migliore qualità dell’immagine.

Ecco dunque che la tecnica di distribuire la luce su una superficie maggiore – chiamata defocusing – permetterebbe di raggiungere precisioni molto elevate, ed è utile nel caso in cui quello introdotto dai pixel sia l’errore dominante, come succede nei telescopi spaziali, per i quali l’atmosfera non rappresenta un problema.

Ma è davvero efficace? Lo abbiamo chiesto a Roberto Ragazzoni, astronomo dell’Istituto nazionale di astrofisica all’Osservatorio di Padova, esperto di ottica e membro del board della missione spaziale europea Cheops (CHaracterizing ExOPlanets Satellite).

«Si tratta di un’applicazione interessante in tutte le situazioni in cui il telescopio o il rivelatore ottico non sono ottimali o allo stato dell’arte», spiega Ragazzoni. «Se applicata a telescopi sub-ottimali, questa tecnica permette di ottenere risultati molto buoni, pur non stabilendo un record nella qualità delle osservazioni (intendiamo sempre da Terra), consentendo di raggiungere un livello di misure di qualità medio-alta a una classe di rivelatori che altrimenti ne sarebbe esclusa. Esistono misure effettuate con i migliori rivelatori a disposizione in modo tradizionale che mostrano una precisione anche superiore: per citare un esempio, quelle fatte dal gruppo di Valerio Nascimbeni per cercare transiti di pianeti da Terra».

Chiediamo a Ragazzoni se questo tipo di tecnica verrà utilizzato anche per Cheops, la missione europea destinata allo studio dei pianeti extrasolari in partenza nel 2018. Cheops avrà il compito di compiere osservazioni molto precise di stelle attorno alle quali è già nota la presenza di pianeti o di cui ci sono forti indizi, con l’obiettivo di studiare la struttura di pianeti extrasolari con raggi che vanno tipicamente da 1 a 6 volte quelli della Terra e con masse fino a 20 volte quella del nostro Pianeta, in orbita attorno a stelle luminose.

«Anche il nostro gruppo di ricerca aveva valutato questa soluzione per Cheops, testando lo stesso dispositivo oggetto dello studio in laboratorio (vedi Magrin et al., 2014), come citano anche loro nell’articolo. Nel caso spaziale questa tecnica avrebbe un piccolo margine di miglioramento netto, ma bisogna considerare», osserva Ragazzoni, «che sarebbe stata la prima volta che un dispositivo simile avrebbe volato nello spazio. Sia per cause termiche sia per un possibile annerimento del vetro a causa delle radiazioni a cui il telescopio è esposto durante il periodo della permanenza in orbita, sarebbe stato troppo rischioso adottare questa soluzione».

L’esposizione prolungata del vetro comune (borosilicato) alle radiazioni cosmiche può infatti produrre un annerimento e variazione nella trasparenza, con la conseguente perdita di qualità dello strato riflettente degli specchi o di altri dispositivi ottici (lenti, eccetera). Per le applicazioni spaziali è normalmente utilizzata una miscela di borosilicato con altre sostanze (per gli specchi lo ZeroDur, per le lenti il BK7 a cui si aggiunge ossido di cerio), che conferiscono al vetro la tipica colorazione leggermente giallognola rendendolo stabile alle radiazioni anche per anni.

«Anche per Cheops si userà una tecnica di defocusing», conclude Ragazzoni, «ossia di sparpagliamento della luce sulla superficie del sensore, ma la qualità ottica del telescopio si giocherà tutta sulla stabilità, dote fondamentale nel campo spaziale. Proprio recentemente è stata verificata in Svizzera la stabilità del telescopio, garantita dalle strutture in carbonio, ed è stata testata con successo con una precisione di pochi nanometri».

Per saperne di più:

  • Leggi su The Astrophysical Journlal l’articolo “Towards Space-like Photometric Precision from the Ground with Beam-Shaping Diffusers“, di Gudmundur Stefansson, Suvrath Mahadevan, Leslie Hebb, John Wisniewski, Joseph Huehnerhoff, Brett Morris, Sam Halverson, Ming Zhao, Jason Wright, Joseph O’rourke, Heather Knutson, Suzanne Hawley, Shubham Kanodia, Yiting Li, Lea M. Z. Hagen, Leo J. Liu, Thomas Beatty, Chad Bender, Paul Robertson, Jack Dembicky, Candace Gray, William Ketzeback, Russet McMillan e Theodore Rudyk
  • Vai al sito di Cheops

Guarda in questo video il confronto fra defocused, focused e diffused: