Un po’ come quando avviene un omicidio, anche in astrofisica c’è chi si occupa di scattare le prime foto e chi, invece, ha il compito di scoprire nel più breve tempo possibile l’identità del cadavere. Nella maggior parte dei casi basta guardare nelle tasche, ma a volte le cose sono più complicate. È il caso dell’evento annunciato oggi nel corso di più conferenze stampa tenutesi in simultanea nel mondo: la rivelazione della prima onda gravitazionale della quale sia stato possibile registrare la controparte elettromagnetica.
Dopo il merging delle due stelle di neutroni, dopo lo “sparo” del lampo gamma, quello rimasto a brillare per qualche tempo lassù nella galassia Ngc 4993 che razza d’oggetto era mai? Per stabilirlo era necessaria un’accurata analisi spettroscopica. Analisi condotta usando i grandi telescopi cileni dell’Eso da alcuni team di scienziati. C’era il team di Stephen Smartt, del quale fanno parte anche astrofisici dell’Inaf, e che ritroviamo oggi su Nature. C’era quello di Stefano Covino dell’Inaf di Milano, che con lo strumento Fors2 del Vlt ha compiuto le misure polarimetriche, pubblicate oggi su Nature Astronomy. E, primo fra tutti, nella notte fra il 18 e il 19 agosto, c’era il team guidato da Elena Pian dell’Inaf di Bologna e Paolo D’Avanzo dell’Inaf di Milano, team del quale fanno parte le ricercatrici e i ricercatori Inaf del gruppo Grawita: avvalendosi di uno fra i migliori spettrografi al mondo – X-Shooter, montato sulla seconda delle quattro unità del Very Large Telescope dell’Eso a Paranal, in Cile – sono riusciti, appunto, a svelare l’identità di quella sorgente di luce apparsa in Ngc 4993. Il risultato è anch’esso oggi su Nature, e Media Inaf ha raggiunto Elena Pian a Monaco, dove si trova per la conferenza stampa Eso, per farselo illustrare.
Pian, che cosa è successo quel 17 agosto di circa 130 milioni d’anni fa in una galassia a 40 megaparsec dalla Terra?
«È successo che un sistema di due stelle di neutroni è andato in coalescenza. Tutto ha avuto inizio da stelle massicce, stelle con una massa pari a 8-10 volte quella del Sole. Stelle che spesso, nell’80-90 per cento dei casi, si trovano in sistemi binari. Alla fine della loro vita, quando muoiono, muoiono come supernove. E ciascuna di esse lascia dietro di sé un “resto”, che è una stella di neutroni. Ecco dunque che, se il sistema di partenza è un sistema binario di stelle massicce, il sistema finale sarà un sistema binario di stelle di neutroni, che ruotando una intorno all’altra per centinaia di milioni di anni perdono onde gravitazionali».
Come? Da dove le perdono?
«Ruotando una intorno all’altra. Si avvicinano, e perdono in questo modo energia. A un certo punto, nel momento finale, ruotano velocissimamente una intorno all’altra, in un sistema sempre più stretto, perdono un’energia enorme sotto forma di radiazione gravitazionale, che quindi viene rivelata dai nostri interferometri gravitazionali. La fine di questo balletto orbitale drammatico è la coalescenza: cioè, quando entrano in contatto il sistema muore, va in coalescenza ed esplode. È la fase in cui l’emissione di onde gravitazionali è al massimo, in cui le onde raggiungono la massima ampiezza. E se ci sono telescopi – a tutte le frequenze, dal radio all’ottico al gamma – che osservano, possono vedere la controparte elettromagnetica».
E con questo arriviamo ai giorni nostri, 130 milioni d’anni più tardi, al 17 agosto scorso, qui sul pianeta Terra. Anzitutto, lei dove si trovava?
«Mi stavo trasferendo. Ero arrivata il giorno prima, il 16 agosto, al Max Planck Institute for Astrophysics di Garching, in Germania, dove avevo già pianificato di trascorrere i due mesi successivi. Il giorno dopo, il 17 agosto, quando c’è stato questo evento, l’alert è stato disseminato molto rapidamente dal consorzio Ligo-Virgo. E subito tutti i telescopi ottici e infrarossi a grande campo si sono messi in cerca della controparte».
Come sapevano dove cercare?
«L’elemento chiave, in questo caso, era un’informazione disseminata dal consorzio Ligo-Virgo. E cioè che questo sistema binario si trovava a una distanza molto piccola dalla Terra: 40 megaparsec [ndt, circa 130 milioni di anni luce] è praticamente considerato universo locale. Dunque era un sistema molto vicino. Questo ha messo in allerta gli astronomi ottici, perché a una distanza così piccola non ci sono tantissime galassie: ce ne sono tante, ma non tantissime. Per cui è relativamente facile esplorarle con un telescopio a grande campo di vista, ed è relativamente facile coprire tutto il cielo visibile ed esaminarle tutte».
È quello che avete fatto?
«Sì, è quello che è stato fatto dagli astronomi ottici: hanno spazzato sistematicamente il cielo con i loro telescopi fino a che non sono arrivati alla galassia incriminata, quella in cui era ospitato il sistema colpevole. E lì hanno trovato il transiente ottico, la sorgente variabile ottica».
Come “hanno”? Avete, c’era anche lei, no?
«Be’, sì, io faccio parte del team che entra in attività immediatamente dopo. Il mio è un programma non per la ricerca della controparte ottica, bensì per il follow-up di una controparte ottica quando è stata approvata. Cioè a me spetta capire che cos’è, identificarla».
Doveva essere un oggetto davvero speciale, per far finire il suo articolo dritto sulle pagine di Nature…
«Le circostanze speciali sono due. Una è che c’era un segnale gravitazionale, e ancora prima che gli astronomi ottici si mettessero a cercare una controparte, era stata vista dal satellite Fermi la controparte gamma: un gamma-ray burst, praticamente simultaneo all’onda gravitazionale. L’altra circostanza molto importante è, appunto, che il sistema era vicinissimo alla Terra. Quindi un segnale gravitazionale da un sistema estremamente vicino alla Terra per il quale è stato rivelato anche il lampo di raggio gamma. Ecco dunque che, localizzata la controparte ottica in tempi estremamente rapidi, entrano in gioco i team che – come il mio – hanno tempo al telescopio per fare la caratterizzazione e l’identificazione della sorgente con la spettroscopia».
È stato importante che la sorgente si trovasse vicina alla Terra, diceva. Perché?
«Essendo così vicina, ci aspettavamo di acquisire degli spettri bellissimi. Tipicamente, le sorgenti con cui abbiamo a che fare noi, cioè i gamma-ray bursts delle supernove, sono molto più lontane, per cui la spettroscopia risulta assai più difficile da fare: bisogna esporre più a lungo, il segnale è spesso modesto… Qui, avendo una sorgente a 40 megaparsec, ci aspettavamo il meglio».
I risultati vi hanno dato ragione?
«Sì. Abbiamo preso il primo spettro con X-Shooter, uno strumento montato al Vlt dell’Eso, in Cile. È uno strumento che copre l’intero spettro, dal vicino infrarosso fino al vicino ultravioletto, e lo copre simultaneamente, perché ha tre bracci che lavorano simultaneamente. Quindi uno strumento estremamente versatile, estremamente sensibile».
Insomma, avevate a disposizione il telescopio al momento giusto e con lo strumento giusto…
«Be’, diciamo, essendo riusciti a osservare appena un giorno e mezzo dopo l’esplosione, abbiamo preso spettri bellissimi. Il primo spettro, poi, è spettacolare».
Che informazioni contiene, questo spettro?
«Il primo spettro è molto importante perché ci mostra una pura emissione termica, un corpo nero quasi perfetto: cioè la descrizione di una sorgente quasi esclusivamente termica».
Cosa significa?
«Vuol dire che abbiamo visto la sorgente proprio alla nascita. È il momento iniziale in cui è talmente piccola e compatta che nessun fotone esce dalla regione emittente, quindi osserviamo soltanto lo strato esterno della radiazione, la fotosfera, senza vedere nessun fotone che viene fuori. Ed è una sorgente calda, una sorgente descritta puramente dalla sua temperatura, come tutte le sorgenti di corpo nero».
Quando dice “sorgente”, in questo caso, cosa intende?
«È la luce, la prima luce, emessa da questa sorta di “palla di fuoco”, in inglese fireball, prodotta dalla coalescenza delle due stelle di neutroni. Le due stelle di neutroni urtano una contro l’altra, praticamente penetrano una dentro l’altra, e formano un unico oggetto, un’unica piccolissima e compattissima regione emittente piena di energia. Piena di energia e quasi completamente opaca, nel senso che niente traspare: di questa sorgente primigenia non è possibile vedere gli strati interni, si vede soltanto lo strato esterno che emette a una certa temperatura. È una pura sorgente termica che emette a una certa temperatura. Una sorgente compattissima, però il materiale di cui è fatta, cioè i neutroni, inizia a espandersi molto rapidamente. Essendoci tanta energia – l’energia di legame di due stelle di neutroni – che si libera in un volume piccolissimo, la densità di energia potenziale, lì in quello spazio angusto, è altissima».
Quindi cosa succede?
«Succede che l’energia potenziale inizia a trasformarsi in energia cinetica, che viene trasferita al materiale, che a sua volta inizia a muoversi a velocità altissime. Infatti abbiamo osservato, negli spettri, velocità attorno al 20-30 per cento della velocità della luce».
Sarebbe questa palla di fuoco, quella che chiamate kilonova?
«Esattamente. Kilonova è il nome che è stato dato a questa sorgente, inizialmente compattissima, che poi evolve. Gli spettri successivi al primo non sono più spettri di corpo nero: sono spettri sempre più trasparenti, formati da materiale che irradia con opacità sempre inferiore. Divenendo più trasparente, riusciamo a osservare gli strati più interni di questo materiale, e quindi vediamo righe di assorbimento formate dalle specie atomiche che sono dentro a questo materiale».
Specie atomiche? Quali, per esempio?
«Soprattutto atomi pesanti, cioè gli atomi formati attraverso la nucleosintesi da processo r, dove la lettera ‘r’ sta per rapido: è un processo di formazione di elementi tipico di questi ambienti estremi. Due stelle di neutroni sono due oggetti pieni, dove la densità di neutroni è altissima, il volume è piccolissimo e quindi avviene uno scambio rapidissimo di neutroni che, accoppiato a decadimento beta diretto e inverso (cioè si perdono e si acquisiscono elettroni), porta alla formazione di molti protoni e molti nuovi neutroni. Protoni e neutroni che, essendo il volume così piccolo, formano molto rapidamente atomi pesanti, cioè atomi nel cui nucleo ci sono tanti protoni e tanti neutroni, con numero atomico alto e peso atomico alto. Esempi classici sono tutti gli elementi più pesanti del ferro. Elementi come il selenio, l’ittrio, il rutenio… fino all’uranio».
Passando dunque anche per l’oro?
«Eh sì, naturalmente: fra questi elementi molto pesanti sono inclusi l’oro e il platino».
E com’è stato, oggi, vedere su Nature l’articolo “Pian et al.”, per una scoperta che entrerà nei libri di storia della fisica?
«Ho rivissuto in forma amplificata l’esperienza di 20 anni fa, quando una storia analoga si presentò con i gamma ray-bursts: vent’anni fa BeppoSAX, un satellite italo-olandese, localizzò per la prima volta i gamma-ray bursts, e quindi mise in grado gli astronomi di rivelare le controparti X, ottiche e radio dei gamma ray bursts. Fu una rivoluzione, per l’astrofisica delle alte energie. E io ebbi la fortuna di partecipare a quella scoperta, a quelle fasi: c’ero anch’io, e abbiamo vissuto momenti di grande eccitazione. Nel caso odierno si è ripresentata una situazione del genere, ma stavolta oserei dire molto più importante».
Perché?
«Perché questa kilonova è l’atto di nascita dell’astronomia gravitazionale ed elettromagnetica. Cioè abbiamo capito e dimostrato che si può fare astrofisica delle alte energie multimessenger. Questa è la dimostrazione. Ne abbiamo tanto parlato… impareremo cose nuove, dicevamo, osservando gli stessi oggetti con gli interferometri gravitazionali e con i telescopi elettromagnetici e i satelliti per la radiazione elettromagnetica. Ebbene, oggi abbiamo dimostrato che lo possiamo fare, che lo si fa e che il progresso è enorme».
Per saperne di più:
- Leggi su Nature l’articolo “Spectroscopic identification of r-process nucleosynthesis in a double neutron star merger”, di Pian, P. D’Avanzo, S. Benetti, M. Branchesi, E. Brocato, S. Campana, E. Cappellaro, S. Covino, V. D’Elia, J. P. U. Fynbo, F. Getman, G. Ghirlanda, G. Ghisellini, A. Grado, G. Greco, J. Hjorth, C. Kouveliotou, A. Levan, L. Limatola, D. Malesani, P. A. Mazzali, A. Melandri, P. Møller, L. Nicastro, E. Palazzi, S. Piranomonte, A. Rossi, O. S. Salafia, J. Selsing, G. Stratta, M. Tanaka, N. R. Tanvir, L. Tomasella, D. Watson, S. Yang, L. Amati, L. A. Antonelli, S. Ascenzi, M. G. Bernardini, M. Boër, F. Bufano, A. Bulgarelli, M. Capaccioli, P. G. Casella, A. J. Castro-Tirado, E. Chassande-Mottin, R. Ciolfi, C. M. Copperwheat, M. Dadina, G. De Cesare, A. Di Paola, Y. Z. Fan, B. Gendre, G. Giuffrida, A. Giunta, L. K. Hunt, G. Israel, Z.-P. Jin, M. Kasliwal, S. Klose, M. Lisi, F. Longo, E. Maiorano, M. Mapelli, N. Masetti, L. Nava, B. Patricelli, D. Perley, A. Pescalli, T. Piran, A. Possenti, L. Pulone, M. Razzano, R. Salvaterra, P. Schipani, M. Spera, A. Stamerra, L. Stella, G. Tagliaferri, V. Testa, E. Troja, M. Turatto, S. D. Vergani e D. Vergani
- Leggi su Nature l’articolo “A kilonova as the electromagnetic counterpart to a gravitational-wave source“, di S. J. Smartt, T.-W. Chen, A. Jerkstrand, M. Coughlin, E. Kankare, S. A. Sim, M. Fraser, C. Inserra, K. Maguire, K. C. Chambers, M. E. Huber, T. Krühler, G. Leloudas, M. Magee, L. J. Shingles, K. W. Smith, D. R. Young, J. Tonry, R. Kotak, A. Gal-Yam, J. D. Lyman, D. S. Homan, C. Agliozzo, J. P. Anderson, C. R. Angus, C. Ashall, C. Barbarino, F. E. Bauer, M. Berton, M. T. Botticella, M. Bulla, J. Bulger, G. Cannizzaro, Z. Cano, R. Cartier, A. Cikota, P. Clark, A. De Cia, M. Della Valle, L. Denneau, M. Dennefeld, L. Dessart, G. Dimitriadis, N. Elias-Rosa, R. E. Firth, H. Flewelling, A. Flörs, A. Franckowiak, C. Frohmaier, L. Galbany, S. González-Gaitán, J. Greiner, M. Gromadzki, A. Nicuesa Guelbenzu, C. P. Gutiérrez, A. Hamanowicz, L. Hanlon, J. Harmanen, K. E. Heintz, A. Heinze, M.-S. Hernandez, S. T. Hodgkin, I. M. Hook, L. Izzo, P. A. James, P. G. Jonker, W. E. Kerzendorf, S. Klose, Z. Kostrzewa-Rutkowska, M. Kowalski, M. Kromer, H. Kuncarayakti, A. Lawrence, T. B. Lowe, E. A. Magnier, I. Manulis, A. Martin-Carrillo, S. Mattila, O. McBrien, A. Müller, J. Nordin, D. O’Neill, F. Onori, J. T. Palmerio, A. Pastorello, F. Patat, G. Pignata, Ph. Podsiadlowski, M. L. Pumo, S. J. Prentice, A. Rau, A. Razza, A. Rest, T. Reynolds, R. Roy, A. J. Ruiter, K. A. Rybicki, L. Salmon, P. Schady, A. S. B. Schultz, T. Schweyer, I. R. Seitenzahl, M. Smith, J. Sollerman, B. Stalder, C. W. Stubbs, M. Sullivan, H. Szegedi, F. Taddia, S. Taubenberger, G. Terreran, B. van Soelen, J. Vos, R. J. Wainscoat, N. A. Walton, C. Waters, H. Weiland, M. Willman, P. Wiseman, D. E. Wright, Ł. Wyrzykowski e O. Yaron Show
- Leggi su Nature Astronomy l’articolo “The unpolarized macronova associated with the gravitational wave event GW 170817“, di S. Covino, K. Wiersema, Y. Z. Fan, K. Toma, A. B. Higgins, A. Melandri, P. D’Avanzo, C. G. Mundell, E. Palazzi, N. R. Tanvir, M. G. Bernardini, M. Branchesi, E. Brocato, S. Campana, S. di Serego Alighieri, D. Götz, J. P. U. Fynbo, W. Gao, A. Gomboc, B. Gompertz, J. Greiner, J. Hjorth, Z. P. Jin, L. Kaper, S. Klose, S. Kobayashi, D. Kopac, C. Kouveliotou, A. J. Levan, J. Mao, D. Malesani, E. Pian, A. Rossi, R. Salvaterra, R. L. C. Starling, I. Steele, G. Tagliaferri, E. Troja, A. J. van der Horst e R. A. M. J. Wijers