Giardinaggio e orticoltura non sono certo l’argomento più ricorrente, su queste pagine. Ma il loro impiego in ambiente spaziale è un tema di sempre maggior interesse. Già si è dimostrato, con numerosi esperimenti sulla Iss, che le piante possono crescere e sbocciare in assenza di microgravità. Ora si cerca di capire fino a che punto possano essere coltivate come riserva di cibo fresco, o per altri scopi quali, per esempio, la purificazione dell’aria e la produzione di ossigeno. Ma potrebbero contribuire anche al benessere psichico degli astronauti? È la domanda che si sono posti Raymond Odeh e Charles Guy, autori di uno studio, “Gardening for Therapeutic People-Plant Interactions during Long-Duration Space Missions”, pubblicato sull’ultimo numero di Open Agriculture.
Conosciamo circa 7mila specie di piante commestibili, 600 delle quali produttive dal punto di vista economico, scrivono i due scienziati dell’Università della Florida. Ma quelle utilizzate per giardinaggio e a fini paesaggistici sono assai più numerose: circa 28mila specie, che abbiamo diffuso su tutto il pianeta e adattato ai climi più disparati. È dunque forte il sospetto che le piante non abbiano da offrirci soltanto cibo e principi attivi a uso farmacologico. Gli autori dello studio hanno dunque cercato di capire quali siano gli altri vantaggi della presenza di piante per noi umani, e in che modo possano estendersi ai viaggi spaziali.
A questo proposito, i due autori sottolineano come ci siano numerosi studi che dimostrano l’effetto positivo delle piante e dell’attività di giardinaggio sull’umore delle persone. Un’ipotesi presa in considerazione è quella della cosiddetta biofilia: la tendenza innata in noi umani a provare interesse per tutto ciò che riguarda la vita e i processi vitali. E arrivano a concludere che, se il contatto con le piante ci rende più felici e sereni qui sulla Terra, lo stesso dovrebbe valere anche su nello spazio, suggerendo quindi di tenerne conto nella progettazione delle future missioni di lunga durata.
Media Inaf ne ha parlato con un’esperta di “psicologia dello spazio”, Denise Ferravante, psicologa e ricercatrice all’Enea, alla quale già ci eravamo rivolti per Mars 500 e per gli studi sulle emozioni degli astronauti.
Ferravante, come si studiano le conseguenze che i lunghi viaggi spaziali possono avere sull’umore degli astronauti?
«Gli effetti psicologici delle missioni di lunga durata nello spazio possono essere assimilabili a quelli delle spedizioni invernali in Antartide, di cui mi occupo in qualità di psicologa e ricercatrice Enea per lo studio degli effetti psicologici in condizioni estreme di isolamento. Ogni anno presso la base italo-francese Concordia un gruppo di circa 13 persone, ricercatori e tecnici, trascorre 9 mesi in totale isolamento, a circa 80° sotto zero, con 6 mesi di buio, a 3300 metri di altitudine sul plateau antartico».
E risentono della presenza o meno di piante, come suggerisce lo studio di Odeh e Guy?
«Da quanto emerso dagli studi finora effettuati, uno dei fattori di stress è quello della privazione di frutta e verdura fresca nell’alimentazione. I partecipanti alle spedizioni invernali aspettano con ansia l’arrivo del primo volo, agli inizi di novembre di ogni anno, che interrompe l’isolamento portando nuove persone ma anche viveri e frutta fresca. Una delle domande che vengono poste è: “con il nuovo volo arriveranno anche le mele?” che è indicativa di quanto ciò sia importante per il benessere psicofisico delle persone».
Dunque quella di prevedere la presenza di piante nelle future astronavi è un’indicazione che condivide?
«Sicuramente la possibilità di coltivare piante permetterà agli astronauti che parteciperanno alle missioni di lunga durata sulla Stazione spaziale, e in futuro su Marte, di avere cibo fresco con cui integrare la loro alimentazione. Ipotizzo, inoltre, che il benessere legato alla coltivazione delle piante possa essere dovuto alla soddisfazione del vederle crescere e trasformarsi, al piacere di sentirne il profumo, di vederne i colori: in sintesi, al piacere dovuto alla varietà di stimoli per i diversi canali sensoriali (olfatto, vista, gusto, tatto) che in condizioni di ambiente deprivato sono particolarmente rari e perciò graditi».
E se le piante muoiono? Non c’è il rischio d’un effetto boomerang, deprimente invece che di conforto?
«Non credo che la perdita di una pianta crei effetto boomerang: fa parte del ciclo della vita, e anche se in condizioni di stress, i dati di realtà permangono nella consapevolezza delle persone. Un altro elemento importante, come sottolineato nell’articolo, è l’effetto di coesione nel gruppo che la cura delle piante può incrementare. Ciò ha a che fare con il piacere che procura il prendersi cura di altri esseri viventi oltre che di se stessi. L’attenzione all’ambiente “esterno” permette di ampliare lo sguardo distaccandosi dai propri problemi e difficoltà che la situazione di isolamento può comportare».
Ma stando così le cose, più che una pianta, non è meglio portarsi un cucciolo, per esempio?
«Quello degli animali, che al momento non sono contemplati nelle missioni di lunga durata, è un discorso completamente diverso. La loro presenza, per l’elevato coinvolgimento affettivo ed emotivo, sarebbe sicuramente positiva per gli umani, membri della missione. Ma forse non altrettanto per gli animali stessi, i quali farebbero fatica ad accettare l’assenza di gravità, la ridotta dimensione degli spazi e le altre condizioni restrittive che le missioni di lunga durata nello spazio comportano. Condizioni che possono essere sopportate perché siamo consapevoli del valore e dell’importanza che la ricerca spaziale ha per il bene e il futuro dell’umanità».