I primi furono buchi neri di massa media. Poi arrivarono le stelle di neutroni. I prossimi potrebbero essere buchi neri supermassicci: oggetti monstre da centinaia di milioni di masse solari. Solo che, per quest’ultimi, non saranno interferometri come Ligo o Virgo ad accorgersene: occorreranno le pulsar.
Parliamo di coppie d’oggetti che, fondendosi, danno origine a onde gravitazionali. Onde le cui caratteristiche – ampiezza e frequenza anzitutto – dipendono dalla massa dei due oggetti in gioco e dalla rapidità con la quale si consuma l’atto della coalescenza (così i fisici chiamano il processo di fusione). Maggiore è la massa degli oggetti coinvolti, maggiore sarà l’ampiezza delle onde gravitazionali. Più rapido è lo spiraleggiare dell’uno attorno all’altro che precede alla fusione, più alta sarà la frequenza del segnale gravitazionale prodotto.
I chilometrici bracci laser di Ligo e Virgo sono in grado di rivelare segnali ad alta frequenza – dove per “alta” intendiamo da qualche decina a qualche centinaio di Hertz: in termini astrofisici, è una frequenza da soprani, qual è appunto l’urlo – o il chirp – della coalescenza fra normali buchi neri o stelle di neutroni. Un acuto finale che dura da pochi secondi – ed è il caso dei buchi neri – a una manciata di minuti al massimo, come accade con le stelle di neutroni. I buchi neri supermassicci che albergano nel cuore delle galassie, al contrario, quando si uniscono lo fanno in centinaia di milioni di anni, emettendo dunque un’interminabile nota ultra-bassa. Una nota così grave che nessun interferometro sarà mai in grado di percepire.
È qui che entrano in gioco quegli straordinari metronomi naturali che sono le pulsar. Ed è qui che entra in gioco il team guidato da Chiara Mingarelli, prima autrice di uno studio, appena pubblicato su Nature Astronomy, sulla rivelazione di onde gravitazionali da merging di buchi neri supermassici tramite il metodo del pulsar timing array. Nata e cresciuta in Canada, dove ha frequentato il liceo, Mingarelli si è successivamente trasferita in Italia, dove si è laureata a Bologna in astrofisica e cosmologia, e attualmente si divide tra gli Stati Uniti, dove è ricercatrice al Center for Computational Astrophysics del Flatiron Institute di New York, e la Germania, dove dirige l’analisi dati dello European Pulsar Timing Array (Epta). L’Epta è l’esperimento che insieme a due “cugini” americani e australiani – rispettivamente il North American Nanohertz Observatory for Gravitational Waves (NanoGrav) e il Parkes Pulsar Timing Array (Ppta) – va a formare il consorzio dell’International Pulsar Timing Array (Ipta).
Ed è proprio misurando eventuali anticipi o ritardi nei segnali provenienti da queste pulsar – 49 in tutto, nell’array preso in considerazione da Mingarelli – che gli astrofisici sperano d’individuare la traccia di onde gravitazionali generate dall’incontro fra buchi neri supermassicci. «Le onde gravitazionali prodotte dalla fusione di sistemi binari di buchi neri supermassicci sono le più potenti dell’universo», sottolinea Mingarelli. «Al loro confronto, le fusioni fra buchi neri come quelli rilevati da Ligo sono piccolissime».
Ma quanto occorre attendere per assistere a queste enormi fusioni? «Il tasso di merging di buchi neri supermassicci non è noto. Tuttavia, dai nostri calcoli pensiamo che ce ne sarà almeno uno entro i prossimi 10 anni», dice Mingarelli a Media Inaf. Per arrivare a questa stima, lei e il suo team hanno passato in rassegna circa 5000 galassie della survey 2Mass, scelte fra quelle che ospitano buchi neri supermassicci. Di queste, una novantina dovrebbero avere un buco nero prossimo a fondersi con un altro.
Un aspetto sorprendente emerso dall’analisi dei risultati riguarda il tipo di galassie per le quali è più probabile riuscire a registrare un evento di fusione fra buchi neri supermassicci. Da una parte, più grandi sono le galassie, più massicci saranno i buchi neri presenti nel loro nucleo, e dunque – come già detto – le onde gravitazionali che produrranno saranno anch’esse più intense. Al tempo steso, però, più i buchi neri sono massicci e più rapidamente si fonderanno, riducendo dunque la finestra temporale entro la quale sarà possibile rivelare la conseguente emissione d’onde gravitazionali. Anche se parliamo comunque di tempi geologici: una fusione di buchi neri in una galassia enorme qual è M87 produrrebbe onde gravitazionali rilevabili per 4 milioni di anni, calcolano gli autori dello studio, mentre una galassia più modesta, come la Galassia Sombrero, offrirebbe una finestra utile di ben 160 milioni di anni.
Tornando a oggetti di massa più modesta, è possibile che delle cinque onde gravitazionali rivelate fino a oggi da Ligo-Virgo sia stata registrata qualche traccia anche nella rete di 49 pulsar monitorate dal team di Mingarelli? «No, nessuna traccia. La ragione», spiega Mingarelli a Media Inaf, «è dovuta al fatto che le sorgenti di Ligo sono differenti dalle nostre: Ligo è costruito per misurare onde gravitazionali di alta frequenza dovute a merging (fusione) di buchi neri stellari. Il nostro esperimento, invece, misura onde gravitazionali di bassa frequenza dovute a merging di buchi neri supermassivi. E per supermassivi intendiamo da 100 milioni a 1 miliardo di volte la massa del Sole».
Per saperne di più:
- Leggi su Nature Astronomy l’articolo “The local nanohertz gravitational-wave landscape from supermassive black hole binaries”, di Chiara M. F. Mingarelli, T. Joseph W. Lazio, Alberto Sesana, Jenny E. Greene, Justin A. Ellis, Chung-Pei Ma, Steve Croft, Sarah Burke-Spolaor e Stephen R. Taylor
- Sui pulsar timing array, leggi su Media Inaf l’articolo “Pulsar come Gps per le onde gravitazionali“