Uno degli obiettivi fondamentali della cosmologia, la branca della scienza che studia l’evoluzione del nostro Universo, è quello di comprendere come la materia si organizzi per formare le strutture che popolano il cosmo, e come poi tali strutture si sviluppino e cambino nel tempo. Avere informazioni dettagliate sulla distribuzione degli oggetti che osserviamo funge da chiave di volta per completare il puzzle sulla natura delle famigerate componenti oscure che dominano l’espansione dell’Universo.
In generale, lo studio delle strutture cosmiche tende a concentrarsi sull’analisi delle regioni ad alta densità, come le galassie o gli ammassi di galassie, eccellenti laboratori naturali per sondare i misteri dell’astrofisica; questo perché sono relativamente facili da individuare nel cielo e presenti in numero sufficientemente grande. Tuttavia nell’Universo esistono anche altre categorie di “oggetti” altrettanto interessanti, oggetti che possono rivelarsi delle vere e proprie miniere d’oro per gli scienziati, fornendo informazioni complementari a quelle ottenibili attraverso i loro più celebri compagni.
Un esempio sono i mitici vuoti cosmici, enormi zone dell’Universo che si estendono per decine o centinaia di milioni di anni luce, caratterizzate da una densità di materia estremamente bassa che si riflette nella quasi totale assenza di galassie o di altre strutture massicce al loro interno. Possiamo immaginare un vuoto cosmico come il risultato opposto del collasso gravitazionale. La materia, distribuita in modo pressoché uniforme nell’Universo primordiale, tende ad addensarsi sotto l’azione della gravità nei punti in cui c’è una leggera sovrabbondanza di particelle; conseguentemente, le zone già lievemente sotto-dense in partenza, si troveranno sempre più “svuotate” con il passare del tempo, fino a generare mastodontiche bolle desolate.
I vuoti cosmici sono al centro di un nuovo interessante lavoro condotto da un piccolo team di ricercatori coordinati da David Alonso, dell’Università di Oxford. Sfruttando la distorsione della luce prodotta nei primi anni di vita dell’Universo, Alonso e collaboratori hanno esaminato le proprietà del gas presente in queste regioni, concentrandosi in particolar modo sulla stima del profilo di pressione e temperatura di tale gas. Un’accurata conoscenza di queste grandezze permetterebbe di fare diversi passi in avanti nella comprensione di come l’energia viene ridistribuita nel cosmo durante la sua evoluzione.
Data la bassa densità di materia nei vuoti infatti, i più comuni modelli teorici predicono che le poche particelle in essi contenute dovrebbero avere una pressione piuttosto debole rispetto alla media nell’Universo ed essere relativamente più fredde. Tuttavia, alcuni meccanismi più complessi potrebbero dar luogo ad un rimescolamento di energia all’interno del gas che produrrebbe un conseguente innalzamento della temperatura. Per indagare questi fenomeni, i ricercatori hanno utilizzato il simpatico effetto Sunayev-Zel’dovich, che coinvolge i fotoni del fondo cosmico di microonde (Cmb – Cosmic Microwave Background) e gli elettroni del gas intergalattico.
A poche migliaia di anni dalla sua formazione, i fotoni prodotti nei primi istanti di vita dell’Universo si “separano” dalla materia ed iniziano ad evolversi indipendentemente, diluendosi con l’espansione del cosmo e perdendo sempre più energia. Questa radiazione, predetta dal modello del Big Bang caldo e scoperta per caso nel 1965 dai signori Arno Penzias e Robert Wodroow Wilson, oggi è osservabile come un fondo “fossile” distribuito quasi uniformemente nel cielo, caratterizzato da una frequenza media nella zona delle microonde.
Raccogliere e studiare i fotoni del Cmb fornisce dettagliate informazioni su come la materia era organizzata nel cosmo al momento della separazione (o, come si dice in gergo tecnico, del “disaccoppiamento”), avvenuto circa 380mila anni dopo il Big Bang. Inoltre, quando questi fotoni incontrano particelle di gas caldo nel loro cammino, essi possono interagire “sbattendo” contro gli elettroni di questo gas e modificando la propria energia. Tale interazione produce delle distorsioni ben visibili nella distribuzione della radiazione del Cmb, dando luogo a quello che viene definito effetto Sunayev-Zel’dovich (SZ).
Alonso e collaboratori hanno combinato i dati sul Cmb forniti dal satellite Planck con le informazioni sulla distribuzione di quasi 800 vuoti cosmici per determinare il comportamento della pressione del gas al loro interno, analizzando come l’energia dei fotoni viene modificata proprio a causa dell’effetto SZ. I risultati della ricerca confermano in parte ciò che ci si aspettava: i vuoti sono zone in cui la pressione risulta essere più bassa rispetto alla media cosmica. Sorprendentemente, però, l’analisi mostra che il gas non è così freddo come predetto dalla teoria; un risvolto piuttosto intrigante che, se confermato, potrebbe indicare la presenza di fenomeni fisici estremamente energetici, come potentissimi getti prodotti da buchi neri supermassicci, in grado di immettere grandi quantità di energia nel cosmo e riscaldare il gas anche nelle regioni più solitarie dell’Universo.
Per avere il verdetto finale, concludono gli autori dello studio, bisognerà attendere le future osservazioni condotte con i telescopi di ultima generazione, attraverso le quali saremo in grado sia di individuare nuovi vuoti cosmici con maggiore precisione, sia di ottenere mappe sempre più dettagliate dell’effetto SZ nell’Universo.
Per saperne di più:
- Leggi l’anteprima dell’articolo pubblicato su Physical Review D. “Measurement of the thermal Sunyaev-Zel’dovich effect around cosmic voids”, di David Alonso, J. Colin Hill, Renée Hlozek e David N. Sperge