Oggi vi parliamo di due articoli agli antipodi. Uno, guidato da un astronomo australiano, lo trovate su The Astrophysical Journal. L’altro, firmato da due neuropsicologi spagnoli, è pubblicato su Acta Astronautica. Entrambi sono usciti in questi giorni. Ed entrambi trattano lo stesso argomento, sebbene da punti di vista assai distanti: Seti, la ricerca di segnali da civiltà extraterrestri.
Partiamo dal secondo, quello dei neuropsicologi dell’università andalusa del Cádiz Gabriel de la Torre e Manuel García. I due hanno provato a rivisitare in chiave Seti uno fra i test più celebri degli anni Novanta per dimostrare gli inganni della percezione, quello del gorilla invisibile: un ragazzo in costume da gorilla entra in scena in un campo da basket battendosi il petto, ma meno della metà degli osservatori – ai quali era stato assegnato il compito di contare i passaggi di palla – lo nota. Come se fosse, appunto, invisibile. Potenza della cecità percettiva.
Ebbene, si sono chiesti García e de la Torre, non è che – mentre continuiamo a cercarli – gli extraterrestri siano tutti quanti lì, sotto il nostro naso, come appunto tanti gorilla invisibili? «Quando pensiamo ad altri esseri intelligenti, tendiamo a vederli attraverso nostro setaccio percettivo. Ma siamo limitati dalla nostra visione del mondo sui generis, una cosa difficile da ammettere», spiega de la Torre, che per non usare termini troppo hollywoodiani come extraterrestre o alieno preferisce un più sobrio non terrestre. «Quello che stiamo cercando di fare con questa distinzione è contemplare altre possibilità, per esempio esseri di dimensioni che la nostra mente non può afferrare. O intelligenze basate su forme di materia o energia oscure, che costituiscono quasi il 95 per cento dell’universo e che stiamo solo ora iniziando a scorgere».
Mentre i due neuropsicologi si interrogavano, e somministravano test, sulle più implausibili sembianze dei segnali alieni – pardon, non terrestri – che si possano immaginare, all’altro capo del mondo un team di astrofisici cercava analoghe tracce non in forme esotiche di materia o energia bensì nella più prosaica banda radio fra i 72 e i 102 MHz: praticamente la stessa delle terrestrissime trasmissioni radiofoniche in modulazione di frequenza. Come? Sintonizzandosi su una “emittente” molto particolare: l’asteroide alieno ‘Oumuamua, primo – e a oggi unico – ospite interstellare che mai abbiamo visto attraversare il Sistema solare.
Ora, fa le tante teorie inizialmente proposte sulla natura del bizzarro cilindro roccioso, non è mancata quella che proponeva potesse trattarsi di un’astronave aliena in visita dalle nostre parti. Vedi mai che non trasmettesse qualcosa verso la casa madre… Ebbene, se lo avesse fatto nel periodo fra novembre e gennaio scorsi, quando si trovava tra 95 e 590 milioni di chilometri dalla Terra, e se l’emissione fosse avvenuta nel range di frequenze di cui dicevamo prima, c’è almeno un luogo in cui si sarebbe potuto andare a cercare: l’archivio dati del radiotelescopio australiano Mwa, il Murchison Widefield Array.
Due enormi “se”, certo, senza contare l’azzardo dell’assunto iniziale, ma non tali da scoraggiare il team guidato da Steven Tingay, fino all’anno scorso responsabile dell’Unità scientifica per la radioastronomia dell’Inaf e oggi professore alla Curtin University.
«Se esistono nella nostra galassia altre civiltà avanzate, possiamo immaginare che possano sviluppare la capacità di inviare veicoli spaziali su distanze interstellari, e che per comunicare queste astronavi possano usare le onde radio. Anche se la probabilità che ciò avvenga è estremamente bassa, forse addirittura pari a zero», concede Tingay, «il nostro compito di scienziati è quello di analizzare le osservazioni e le prove senza pregiudizi».
Ed è ciò che hanno fatto. Con quale esito? «Non abbiamo trovato nulla, ma in quanto primo oggetto del suo genere mai scoperto ‘Oumuamua ci ha offerto un’opportunità interessante per ampliare la ricerca di forme d’intelligenza extraterrestre dagli obiettivi tradizionali – quali stelle e galassie – a oggetti molto più vicini alla Terra. E questo ci permetterebbe di cercare trasmettitori di molti ordini di grandezza meno potenti di quelli che potrebbero essere rilevati da un pianeta in orbita anche nelle stelle più vicine».
Ma avete tenuto conto – abbiamo chiesto a Tingay, segnalandogli lo studio spagnolo – dell’effetto gorilla? «Be’, sì, immagino che il rischio del cosmic gorilla effect ci accompagni sempre, quando ci occupiamo di Seti. Per quanto riguarda i nostri esperimenti con il Murchison Widefield Array, per esempio, possiamo verificare solo un certo intervallo di scenari Seti: la produzione di segnali a banda stretta e larga a basse frequenze radio. Quanto all’effetto gorilla di cui parla l’articolo», dice Tingay a Media Inaf, «dove un segnale Seti potrebbe essere individuabile in altre dimensioni o tramite la materia oscura o l’energia oscura, nessun problema a prenderlo in considerazione, ma non è certo qualcosa che possiamo testare con il Mwa. Lo lasciamo ad altri esperimenti».
Per saperne di più:
- Leggi su The Astrophysical Journal l’articolo “A Serendipitous MWA Search for Narrow-band and Broad-band Low Frequency Radio Transmissions from 1I/2017 U1 ‘Oumuamua”, di S.J. Tingay, D.L. Kaplan, E. Lenc, S. Croft, B. McKinley, A. Beardsley, B. Crosse, D. Emrich, T.M.O. Franzen, B.M. Gaensler, L. Horsley, M. Johnston-Hollitt, D. Kenney, M.F. Morales, D. Pallot, K. Steele, C.M. Trott, M. Walker, R.B. Wayth, A. Williams e C. Wu
- Leggi su Acta Astronautica l’articolo “The cosmic gorilla effect or the problem of undetected non terrestrial intelligent signals”, di Gabriel G. de la Torre e Manuel A. Garcia