È iniziata da poco più di una settimana la cosiddetta notte antartica: il Sole è sceso sotto l’orizzonte e sarà visibile di nuovo – dalle latitudini della stazione italo-francese Concordia – solo ad agosto. «Ci aspetta qualcosa di veramente speciale: qua non ci sono insetti, animali, aerei che passano sopra la nostra testa, foglie che volano al vento, colori. Non c’è niente che si muove, niente e nessuno a farci compagnia, eccetto che il Sole, sino ad oggi».
Con queste parole l’ingegnere dell’Inaf di Cagliari Marco Buttu – uno dei 13 winter-over della quattordicesima spedizione a Dome C, nell’altopiano antartico – descrive a Media Inaf le sensazioni incredibili date dall’ambiente estremo che lo circonda.
«Immaginate di stare qua, nel posto più freddo e isolato al mondo, persi in una immensa e piatta distesa bianca, lontani da tutto e tutti. Nessuno può raggiungervi, in alcun modo, e non potete più andar via. Nessun rumore. Silenzio assoluto e buio pesto. Se non fosse per il moto dei pianeti e quello apparente delle stelle, tutto sarebbe statico. Ecco perché adesso, finalmente, percepisco pienamente la sensazione di isolamento».
Ma cosa vuol dire per il corpo umano essere esposti a una temperatura così rigida? «La temperatura», spiega Marco, «non è un parametro sufficiente per stimare il freddo che si percepirà al di fuori della base. Ciò che prendiamo in considerazione è la cosiddetta windchill, ovvero la temperatura realmente percepita dal corpo, che tiene in considerazione l’effetto del vento sul corpo. Ad esempio, nel momento in cui scrivo la temperatura è di -63.5 °C, ma a causa del vento (4.8 m/s) si ha una windchill di -83.9 °C: ovvero si stima che il corpo percepirà il freddo come se ci fossero -83.9 gradi».
«Esco tutti i giorni attorno a mezzogiorno per levare la neve dagli specchi del telescopio, che si trova a circa 150 metri dalla base. In quel punto pulisco quotidianamente, perché la neve è secca e leggera (qua il clima è desertico), per cui il vento la solleva come fosse polvere e questa va a finire sopra gli specchi del telescopio. Se non ci sono lavori straordinari, sto fuori giusto una ventina di minuti».
L’altopiano antartico, dove si trova la Stazione Concordia, è probabilmente sulla Terra il luogo più adatto per simulare una missione spaziale: temperature sotto i -80 °C, assenza di vita, buio per diversi mesi, carenza di ossigeno, confinamento e rischio.
«Ecco perché Carmen Possnig, per conto dell’Agenzia spaziale europea, compie su di noi degli studi di biologia umana. Per poter pianificare al meglio le future missioni spaziali è indispensabile infatti capire come il corpo e la mente si trasformano durante la permanenza in un ambiente extraterrestre. Con cadenza mensile ci sottoponiamo quindi a visite mediche, test psicologici e prove di abilità motoria».
I 13 winter-over seguono un programma di training molto speciale coordinato dall’Agenzia spaziale europea: si tratta di simulare le attività di avvicinamento e attracco alla Stazione spaziale internazionale (ISS) alla guida di un simulatore dello Soyuz. Lo Soyuz è la la navicella spaziale che trasporta viveri e astronauti da e verso la Iss. È un veicolo di produzione russa, lungo 7.5 metri, di forma cilindrica, con diametro di 2.7 metri, e trasporta un equipaggio di 3 persone.
«L’attracco avviene sulla parte posteriore della Iss», dice Marco, «precisamente sul modulo russo. Lo Soyuz ha tre gradi di libertà (3 traslazioni e 3 rotazioni), e dovremo sfruttarli per puntare la Iss e muoverci lungo un corridoio di avvicinamento di forma conica. La velocità sarà pari a D/200, dove ‘D’ è la distanza tra la Soyuz e la Iss. Ad esempio, se ci troviamo a 100 metri dobbiamo muoverci in direzione della Iss a 0.5 m/s. La velocità minima è di 0.1 m/s. Avremo davanti due monitor di controllo della Soyuz, e un periscopio tramite il quale inquadrare la Iss. Se perderemo di vista la Iss non riusciremo più a recuperarla, sarà praticamente impossibile».
Questo tipo di addestramento è finalizzato a un’eventuale pianificazione di una futura missione spaziale su Marte, e cerca di dare una risposta ad alcune domande. Un futuro equipaggio, infatti, una volta partito dalla Terra, per tutti i 6-8 mesi necessari per raggiungere Marte non dovrebbe più pilotare la navicella, poiché fino alla fase di atterraggio le manovre dovrebbero essere effettuate dal pilota automatico. Dopo un periodo così lungo, gli astronauti saranno ancora in grado di pilotare il veicolo e fare la discesa su Marte come simulato prima di partire?
I tredici componenti della spedizione sono divisi in due gruppi, uno dei quali ha il compito di effettuare due ore di volo ogni mese, l’altro ogni tre mesi. Lo scopo è appunto capire come cambia la capacità di guidare la Soyuz dopo un periodo prolungato di inutilizzo, dato che passerà un periodo di un mese di pausa (o tre, a seconda del gruppo) tra un volo e l’altro.
Le condizioni saranno particolari, perché nella navicella ci sarà carenza di ossigeno e forte stress per i rischi che la missione comporta, condizioni molto simili a quelle dell’altopiano antartico, forse il posto sulla Terra più adatto per avere queste risposte. E a Dome C non è così diverso. «Siamo in carenza di ossigeno, isolati e irraggiungibili da chiunque per 9 mesi», ricorda Marco Buttu, «sia per essere visitati che per essere soccorsi. Dalla Iss si può tornare sulla Terra in caso di problemi, mentre da qui, per tutto l’inverno, non sarà possibile in nessun caso».
Per saperne di più:
- Segui mese per mese lo speciale di Media Inaf “Un anno al Polo Sud“
- Vai al sito della XXXIII Spedizione Italiana in Antartide, finanziata dal Miur e coordinata da Cnr ed Enea