Accedere alle camere pulite del Goddard Space Flight Center della Nasa – a Greenbelt, nel Maryland, dove c’è la più grande camera pulita al mondo – o all’interno del Jet Propulsion Laboratory del Caltech, in California, è un’impresa. Si devono anzitutto oltrepassare tappetini adesivi atti a trattenere lo sporco trasportato sulle scarpe. Segue una doccia ad aria compressa, dove decine di getti d’aria spazzano via sudiciume e detriti. E solo dopo queste misure di sterilizzazione si possono indossare tute, copricapi e altri accessori di protezione, tutti accuratamente disinfettati. Nonostante questo percorso a ostacoli, alcuni batteri sopravvivono: ne sono stati trovati all’interno della Stazione spaziale internazionale (dove, tra l’altro, si è visto che alcuni crescono meglio che sulla Terra) e anche a bordo dei rover destinati ad atterrare su Marte.
Per comprendere cosa renda questi batteri e le loro spore praticamente indistruttibili, all’Università di Houston, in Texas, nel laboratorio del professor George Fox (lo scienziato che negli anni Settanta, insieme al collega Carl Woese, classificò gli archaea come uno dei tre domini – insieme a batteri ed eukaryota – nei quali si suddividono gli esseri viventi) gli scienziati stanno studiando alcuni di questi germi, presenti sulla Terra, che potrebbero contaminare gli altri pianeti. Gli ultimi risultati delle loro ricerche, pubblicati su BMC Microbiology, mostrano come alcuni ceppi presenti nelle camere pulite del Jet Propulsion Laboratory (Jpl) della Nasa si siano dimostrati particolarmente adatti a superare ogni processo di decontaminazione.
«Il possibile trasporto di organismi dalla Terra ad altri corpi di interesse del Sistema solare ha un impatto sulla ricerca della vita altrove», ricorda Fox. Come per la selezione naturale, il processo di sterilizzazione all’ingresso delle camere pulite finisce infatti per eliminare i batteri più deboli, mentre i ceppi più forti si adattano e non vengono eliminati dai detergenti.
«Qualunque cosa facciamo, c’è sempre qualche spora batterica che riesce a eludere la decontaminazione», commenta il primo autore dello studio, Madhan Tirumalai, biologo post-doc nel laboratorio di Fox. I ricercatori stanno cercando di capire cosa renda queste spore così speciali a livello genomico, in modo da ricollegare queste caratteristiche con la loro abilità di evadere alle misure di decontaminazione.
Il team guidato da Fox ha studiato batteri che appartengono al genere Bacillus, scegliendo in particolare microorganismi non patogeni, dunque innocui, ma che producono spore altamente resistenti. Per capire da cosa deriva la resistenza di questi batteri, è stato sequenziato il genoma completo di due ceppi resistenti al perossido di idrogeno (l’acqua ossigenata) e alle radiazioni: B. safenis FO-36bT e B. pumilus SAFR-032. I due genomi sono poi stati messi a confronto con quelli di altri due ceppi le cui spore sono invece vulnerabili all’acqua ossigenata e alle radiazioni: B. pumilus ATCC7061T e B. safensis JPL-MERTA-8-2 (isolato, quest’ultimo, proprio al Jpl, nel 2001 sulla sonda Mars Odyssey e successivamente, prima del suo lancio nel 2004, anche sul Mars Explorer Rover).
«La mappatura del genoma ci ha fornito degli indizi fondamentali su ciò che l’organismo potrebbe nascondere», ha continuato Tirumalai. Confrontando i genomi dei quattro ceppi analizzati, i ricercatori hanno infatti trovato dieci geni che sono unici per FO-36bT, e che non si trovano in alcun altro organismo, compresi altri ceppi del genere Bacillus. Dieci geni, dunque, la cui funzione è sconosciuta, ma nei quali potrebbe celarsi il segreto che consente alle spore di B. safensis FO-36bT di resistere all’acqua ossigenata e alle radiazioni, benché non sia immediatamente ovvio determinare se la presenza, o l’assenza, di uno specifico gene, o una loro combinazione, sia responsabile per le variazioni osservate nello sviluppo di resistenza. È comunque emerso che quattro di questi geni si trovano su elementi fagici del ceppo batterico. Un “fago”, abbreviazione di batteriofago, è un virus che infetta i batteri. E sono proprio i fagi i principali facilitatori del trasferimento di geni tra i microbi.
Per saperne di più:
- Leggi su BMC Microbiology l’articolo “Bacillus safensis FO-36b and Bacillus pumilus SAFR-032: a whole genome comparison of two spacecraft assembly facility isolates“, di Madhan R. Tirumalai, Victor G. Stepanov, Andrea Wünsche, Saied Montazari, Racquel O. Gonzalez, Kasturi Venkateswaran e George E. Fox