I giroscopi sono delle brutte bestie. Tanto irrinunciabili quanto fragili, ogni qual volta c’è un problema a una missione spaziale sono sempre in cima alla lista dei presunti colpevoli. Ecco allora che, quando alle 15:55 ora italiana di mercoledì 10 ottobre il telescopio spaziale Chandra è entrato in safe mode, subito si è sospettato di loro. Inevitabilmente il pensiero dei tecnici Nasa è corso al telescopio spaziale Hubble, che appena qualche giorno prima si era dovuto fermare proprio per lo stesso motivo. E si è temuto che anche l’osservatorio Nasa per i raggi X potesse essere costretto a uno stop di durata indefinita. Ma per fortuna nel caso di Chandra le cose si sono chiarite in pochissimo tempo: è di qualche ora fa la notizia che la causa del malfunzionamento è stata individuata, la soluzione è in corso e già entro la fine di questa settimana dovrebbero riprendere le normali operazioni scientifiche.
Ma cos’è accaduto? In effetti il colpevole era proprio uno dei giroscopi. Componenti delicati ma necessari, dicevamo, perché mentre un telescopio qui sulla terra ha un sistema di riferimento naturale e immediato – il terreno sul quale poggia – rispetto al quale compiere i suoi movimenti, nello spazio questo riferimento non c’è. Rispetto a cosa si muove, quando si muove? Certo, ci sono le stelle sullo sfondo, in base alle quali – tramite uno star tracker – è possibile calcolare a ritroso l’orientamento del telescopio. Ma per avere un feedback immediato, rapido e preciso durante le rotazioni per i puntamenti ci si affida a una sorta di “terreno” artificiale: i giroscopi, appunto, che ruotando su sé stessi ad alta velocità mantengono fisso l’orientamento, per effetto della legge di conservazione del momento angolare. Ecco così che quando un giroscopio si rompe è come se a un telescopio venisse a mancare il terreno sotto i piedi: non sa più dove sta guardando.
Ed è proprio quella del venir meno del terreno sotto i piedi la sensazione che deve aver provato il computer di bordo di Chandra mercoledì scorso: ricevendo un dato errato da uno dei giroscopi, ha dedotto che il movimento che stava compiendo il satellite era impossibile, e ha dunque deciso di avviare la procedura di sicurezza per entrare nel cosiddetto safe mode: una configurazione sicura nella quale, per i componenti hardware più critici, alle unità in uso subentrano quelle di backup e – in attesa di nuovi ordini – il satellite viene riorientato in modo che i pannelli solari abbiano la massima esposizione alla luce solare, così da garantire la carica delle batterie, e viceversa lo specchio del telescopio punti nella direzione opposta a quella del Sole, per scongiurare danni agli strumenti scientifici.
Ora l’anomalia è stata ricostruita in ogni dettaglio: ne è stata calcolata la durata – appena tre secondi di dati errati, sufficienti però a innescare la procedura di emergenza – ed è stato individuato il giroscopio difettoso, ora sostituito con uno di scorta. Il tempo di aggiornare il software e, appunto, già la prossima settimana l’infaticabile Chandra – che, ricordiamo, pur progettato per resistere 5 anni lavora indefessamente da 19 anni – potrà riprendere a osservare il cielo in raggi X.
Meno chiare, invece, le sorti di Hubble. Anche qui c’è la conferma che il responsabile è un giroscopio, ma purtroppo nel suo caso si tratta già di quello di riserva: è come aver estratto la ruota di scorta e accorgersi che è bucata anch’essa. In realtà la situazione è un po’ meno drastica, il nuovo giroscopio non è del tutto malfunzionante: indica correttamente gli spostamenti, ma con un offset. Come un contachilometri che segna sempre 100 km/h in più della velocità reale: la velocità che mostra è sbagliata, ma comunque ci permette di capire se abbiamo accelerato, per dire, di 20 km/h rispetto alla velocità precedente. Con una semplice sottrazione si potrebbe anche utilizzare, dunque, se non fosse che un offset così grande è incompatibile con i movimenti ad altissima precisione – il cosiddetto low mode. Ed è proprio un modo per aggirare questa incompatibilità ciò che i tecnici della Nasa stanno cercando. Se riusciranno nell’impresa, Hubble potrà riprendere le normali operazioni con tre giroscopi (la quantità minima per avere un “terreno” artificiale perfettamente stabile). Altrimenti, Hubble dovrà riprendere le osservazioni scientifiche arrangiandosi con un giroscopio soltanto: una condizione non proprio ideale, ma comunque sufficiente – garantiscono i responsabili della missione – per produrre grandi risultati, almeno fino alla presa di servizio del suo successore, il James Webb Space Telescope.