Il cielo ci appare buio ma è pervaso dalla luce di tutte le stelle, sia quelle che ancora brillano, sia quelle spente da lungo tempo.
Qualche centinaio di milioni di anni dopo il Big Bang le stelle hanno iniziato a formarsi e a splendere liberando nello spazio energia sotto forma di fotoni ultravioletti, ottici e infrarossi.
È un processo che continua a tutt’oggi, con sempre nuove generazioni di stelle che si formano, riciclando la materia espulsa da quelle precedenti quando hanno smesso di produrre energia e si sono spente o sono esplose. I fotoni sono il prodotto della fusione termonucleare che tiene accese le stelle e, una volta emessi, entrano a fare parte di un oceano di radiazione che riempie l’universo e conserva il ricordo di tutte le stelle che hanno brillato dall’inizio dei tempi. Se riuscissimo a misurare l’oceano di fotoni, potremmo ricostruire la storia globale delle stelle e capire se si sono formate sempre con le stesso ritmo oppure se ci sono stati periodi più vivaci di altri.
Peccato che contare i fotoni che riempiono lo spazio sia una missione molto difficile. Prima ancora di cominciare il censimento, sappiamo benissimo che non riusciremo mai a tenere conto di ogni stella in ogni galassia, perché le galassie più antiche sono debolissime e impossibili da vedere e da contare.
Per risolvere un problema, a volte bisogna affrontarlo da un punto di vista totalmente diverso. Piuttosto che contare i fotoni prodotti da tutte le stelle che sono mai brillate nell’universo, si può stimare il loro numero partendo dall’entità del disturbo che arrecano ad altri tipi di radiazione. Sappiamo che i fotoni ottici e ultravioletti sono dei temibili killer dei fotoni gamma di alta energia. È un effetto veramente strano, noto come interazione fotone-fotone, e può avvenire solo quando la combinazione dell’energia dei due fotoni è pari al quadrato dell’energia di massa di un elettrone. In questo caso, i due fotoni spariscono, e al loro posto troviamo due particelle: un elettrone e un positrone. Così facendo, i fotoni prodotti dalle stelle annientano i raggi gamma che hanno energie miliardi di volte superiori. L’opera distruttiva è tanto maggiore quanto più lontane sono le sorgenti gamma, visto che un percorso più lungo aumenta la probabilità di un incontro fatale. L’effetto è stato cercato nei dati di oltre 700 sorgenti extragalattiche rivelate dal telescopio Fermi nel corso di 9 anni di osservazioni. Si tratta di nuclei galattici attivi, i cui buchi neri centrali producono potenti getti di radiazione gamma di alta energia. Per ogni sorgente si è quantificata la mancanza di raggi gamma e, con questo dato, si è ricostruita la densità dei fotoni killer durante le diverse epoche della vita dell’universo. Si è visto che l’attività di formazione di stelle ha avuto un massimo 11 miliardi di anni fa. Un’epoca remota, ben precedente alla formazione del Sole, il cui ricordo è scritto nei raggi gamma che mancano all’appello. Anche l’assenza è un’informazione preziosa.