DIFFICILI DA DISTRUGGERE, PIÙ DI QUANTO SI PENSASSE

Asteroidi duri a morire

Un team di ricercatori della Johns Hopkins University ha simulato la collisione di due asteroidi. Il risultato dello studio, in corso di pubblicazione su Icarus, è che disintegrarli è più complicato del previsto

     05/03/2019

Un nuovo studio mostra che i grandi asteroidi potrebbero essere più difficili da rompere di quanto si pensasse. Nell’immagine, i fotogrammi della simulazione al computer che mostrano come i frammenti di un asteroide colpito si riaccumulino dopo la collisione grazie alla gravità esercitata dal nucleo dell’asteroide, danneggiato ma non distrutto. Crediti: Charles El Mir/Johns Hopkins University

Una delle trame più popolari dei film di fantascienza o sci-fi film (science fiction film) è quella di un asteroide incombente sulla Terra il cui impatto mette a repentaglio l’esistenza stessa della vita sul pianeta. Come in Deep Impact o Armageddon, dove per fortuna eroici astronauti ci salvano la pelle facendo esplodere questi giganteschi oggetti diretti verso la Terra. Ma gli asteroidi in arrivo potrebbero essere più difficili da frantumare di quanto si pensasse. E questa non è science fiction. Bensì il risultato di uno studio, in pubblicazione il 15 marzo su Icarus, condotto dai ricercatori dalla Johns Hopkins university utilizzando nuove conoscenze sulla loro composizione e i nuovi metodi di modellizzazione al computer per simulare le collisioni degli asteroidi.

Le domande che si sono posti i ricercatori prima di iniziare questo studio sono quelle che ciascuno di noi si porrebbe se si trovasse in una situazione nella quale un asteroide stesse per incombere sul nostro pianeta: «Quanta energia ci vuole effettivamente per distruggerlo e farlo a pezzi? È meglio romperlo in tanti piccoli pezzi oppure è meglio deviarne il percorso? E in quest’ultimo caso, con quale forza dovremo colpirlo per deviarlo senza causarne la rottura?». Domande alle quali rispondere – in un futuro speriamo il più possibile remoto – potrebbe fare la differenza tra la sopravvivenza e una probabile estinzione.

Dal momento che gli esperimenti di laboratorio da soli non sono in grado di riprodurre né le scale dimensionali degli asteroidi né le condizioni al loro interno dopo l’impatto, l’utilizzo di modelli computerizzati per compiere simulazioni è un valido approccio per fornire informazioni sulla struttura interna e sulla modifica della superficie degli asteroidi a seguito dell’impatto. Nei primi anni del Duemila, un team di ricercatori ha creato un modello computerizzato attraverso il quale – inserendo vari fattori quali massa, temperatura e fragilità del materiale di cui l’asteroide è composto – ha potuto simulare l’impatto di un asteroide di un chilometro di diametro che colpisce frontalmente un altro asteroide di 25 chilometri di diametro (l’asteroide target) a una velocità di impatto di 5 chilometri al secondo. I risultati suggerirono, all’epoca, la distruzione completa dell’asteroide target durante l’impatto.

Nel nuovo studio, tuttavia, la conclusione è un po’ diversa. I ricercatori hanno simulato lo stesso scenario, hanno cioè utilizzato le stesse caratteristiche e valori di massa, temperatura e fragilità del materiale dell’asteroide target del precedente lavoro, utilizzando però, per le simulazioni, un altro modello computerizzato. Un nuovo modello chiamato Tonge-Ramesh che, secondo gli autori, dà conto anche, e in maniera molto dettagliata, di piccoli processi che avvengono durante le collisioni di un asteroide. Hanno quindi suddiviso la ricerca in due fasi: una prima fase, breve, di frammentazione dell’asteroide, che considerava i processi che iniziavano immediatamente dopo che l’asteroide veniva colpito, e che avvengono generalmente in una frazione di secondo; e una seconda fase, più lunga, successiva alla prima, di riaccumulazione gravitazionale, che considerava cioè l’effetto della gravità sui pezzi prodotti dopo l’impatto.

Effettuate le simulazioni, quello che i ricercatori hanno constatato è che, nella prima fase, dopo l’impatto dell’asteroide su quello target, oltre a formarsi un cratere di impatto si formavano milioni di crepe che, via via, si allargavano a tutto l’oggetto. Inoltre, parti di questo asteroide venivano disgregate in piccolissime particelle della dimensione di un granello di sabbia. Fin qui la descrizione dell’impatto è, forse, come ce la immaginiamo un po’ tutti. Ma il bello deve ancora venire. Dall’analisi delle singole crepe prodotte è emerso un modello generale di propagazione delle singole spaccature che ha mostrato come queste non riescano a distruggere completamente l’asteroide, al contrario di quanto si pensava in precedenza. Restava un core, un nucleo danneggiato che esercitava una forte attrazione gravitazionale sui frammenti prodotti che, dunque, si posavano su questo core centrale, come osservato nella seconda fase della simulazione.  Dunque non solo un cumulo di macerie, un insieme di cocci tenuti insieme dalla gravità, ma anche un nucleo non completamente rotto che indicava che sarebbe stata necessaria più energia per distruggere completamente l’asteroide.

«Ritenevamo che più grande fosse stato l’oggetto e più facile sarebbe risultato romperlo», spiega Charles El Mir, dottore di ricerca del dipartimento di ingegneria meccanica della Johns Hopkins University e primo autore dell’articolo. «I nostri risultati, tuttavia, dimostrano che gli asteroidi sono più forti di quanto pensassimo, e che richiedono molta più energia del previsto per essere distrutti».

«Può sembrare fantascienza, ma molte ricerche studiano le collisioni di asteroidi», osserva Kaliat Ramesh, coautore dell’articolo. «Piccoli asteroidi come quello di Chelyabinsk di alcuni anni fa colpiscono il nostro pianeta abbastanza spesso. È solo una questione di tempo e quelle che, per ora, sono domande accademiche diventeranno cruciali per dare risposte concrete a eventuali minacce. Dobbiamo essere pronti, e avere un’idea di cosa fare quando arriverà il momento. Gli studi scientifici come questo sono fondamentali per aiutarci a prendere in futuro tali decisioni».

Per saperne di più:

Guarda il video della simulazione: