Le prime impressioni contano. Così è stato, almeno per Koi 4 (dove Koi sta per Kepler Object of Interest), candidato esopianeta che dopo dieci anni ha finalmente confermato i sospetti e ha potuto cambiare nome in Kepler-1658 b. Lo studio che ne ha decretato l’abilitazione – tramite la rianalisi dei dati esistenti – è stato condotto dalla ricercatrice Ashley Chontos della University of Hawaii, ed è stato simpaticamente intitolato “Lo strano caso di Koi 4: Confermata la prima rivelazione di un esopianeta da parte di Kepler”.
Lanciato quasi dieci anni fa, il telescopio spaziale Kepler ha il compito, all’interno dell’omonima missione Nasa, di monitorare una porzione molto precisa di cielo: un quadrato di circa dieci gradi di lato – una ventina di lune affiancate, o, se volete, la dimensione del vostro pugno puntato verso il cielo – tra le costellazioni della Lira e del Cigno. Grazie ad un fotometro da 95 megapixel composto da 42 sensori, Kepler è in grado di osservare costantemente circa 150mila stelle alla ricerca di esopianeti, ovvero pianeti orbitanti intorno a stelle altre rispetto al Sole. Il fotometro di cui è dotato Kepler non è esattamente una fotocamera, perché, grazie anche a una sfocatura intenzionale, non cerca di carpire immagini di stelle ma si limita a misurarne la luminosità e le relative variazioni dovute al transito dei pianeti, ovvero al loro passaggio tra la stella e il telescopio. Grazie a questa tecnica, gli esopianeti finora scoperti e/o confermati da Kepler sono alcune migliaia, in continuo aggiornamento.
L’individuazione di così tanti esopianeti non deve, tuttavia, indurci a pensare che questo tipo di ricerca sia un gioco da ragazzi, completamente automatizzato e avulso da una meticolosa e appassionante ricerca da parte degli scienziati planetologi. Le variazioni di luminosità registrate dai sensori possono infatti avere varie motivazioni, sia astronomiche – ad esempio la presenza di macchie stellari, analoghe a quelle solari ma enormemente più grandi, altrimenti non sarebbero osservabili – che tecnologiche, dovute ad esempio all’elettronica stessa dei sensori che genera nei pixel un rumore talvolta indistinguibile dalle onde elettromagnetiche provenienti dalle stelle. Un po’ come succede, mutatis mutandis, ai sensori fotografici con le lunghe esposizioni notturne: molti punti luminosi che sembrano stelle compaiono letteralmente dal nulla e sono solo “bruciature” del sensore.
Considerate queste variabili, ora capiamo perché – nonostante sia stato, in assoluto, il primo candidato esopianeta scoperto dal telescopio americano – Koi 4 abbia dovuto aspettare dieci lunghi anni di purgatorio e superare non pochi ostacoli prima di poter essere confermato in modo inoppugnabile come un esopianeta ed essere ribattezzato Kepler-1658 b. Lo scoglio più grande, da cui poi sono derivati tutti gli altri problemi interpretativi, è consistito in un errore della stima iniziale delle dimensioni della stella ospite: Kepler-1658 (senza “b”), il cui raggio risultava inizialmente solo poco più grande del Sole: appena il 10 per cento in più. Erano stime ampiamente sottovalutate rispetto alla realtà. Il transito osservato, per quella grandezza stellare, dava con ragionevole certezza un pianeta delle dimensioni di Nettuno (circa 4 volte il diametro terrestre), ma una seconda eclisse troppo ravvicinata fece archiviare il caso come un “falso positivo”. Ora però lo studio guidato da Chontos – in uscita su The Astronomical Journal – cambia tutto.
«La nostra nuova analisi», spiega Chontos, «che utilizza onde sonore stellari osservate nei dati di Kepler per caratterizzare la stella ospite, ha dimostrato che la stella è in realtà tre volte più grande di quanto si pensasse in precedenza, il che significa che anche il pianeta è tre volte più grande, rivelando che Kepler-1658 b è in realtà un pianeta caldo simile a Giove».
In altre parole, quello che sembrava un Nettuno che girava intorno al Sole è risultato essere un Giove che gira intorno a una stella subgigante grande tre volte tanto. Era tuttavia necessaria un’ulteriore conferma tramite un altro tipo di osservazione: la spettroscopia. Questo lavoro di raccolta di dati è stato condotto da Dave Latham, senior researcher allo Harvard-Smithsonian Center for Astrophysics, e ha definitivamente confermato la natura di Kepler-1658 b tramite una più precisa caratterizzazione chimica della stella madre. Kepler-1658 è risultata quindi una stella subgigante avente, come già anticipato, una volta e mezzo la massa del Sole e ben tre volte il raggio. In pratica, nella sua “sequenza principale”, ovvero nel suo ciclo di vita, Kepler-1658 sembra essere la proiezione di ciò che diventerà il Sole in un futuro ancora abbastanza lontano, quando comincerà a espandersi.
La combinazione di tutti i dati raccolti ha portato a risultati molto precisi e con uno scarso margine di errore. L’orbita planetaria di Kepler-1658 b è dunque risultata essere molto veloce (una rivoluzione dura meno di quattro giorni terrestri), molto eccentrica e molto vicina alla stella madre (solo due diametri stellari le separano). Così vicina che, vista da un ipotetico abitante sulla bollente superficie del pianeta, apparirebbe in cielo come una sfera con un diametro 60 volte più grande di quello del Sole visto dalla Terra.
Per saperne di più:
- Leggi il preprint dell’articolo “The Curious Case of KOI 4: Confirming Kepler’s First Exoplanet Detection“, di Ashley Chontos, Daniel Huber, David W. Latham, Allyson Bieryla, Vincent Van Eylen, Timothy R. Bedding, Travis Berger, Lars A. Buchhave, Tiago L. Campante, William J. Chaplin, Isabel L. Colman, Jeff L. Coughlin, Guy Davies, Teruyuki Hirano, Andrew W. Howard e Howard Isaacson