C’è voluta la forza bruta di uno tra i supercomputer più veloci del mondo, un Cray XK7 Titan. E hanno dovuto far ricorso alle singolari proprietà di un elemento della tavola periodica che gli stessi fisici definiscono “magico” – anzi, “doppiamente magico”: il raro isotopo 100 dello stagno, il cui nucleo è formato da 50 protoni e 50 neutroni. Ma alla fine ci sono riusciti: un interrogativo di fisica fondamentale che da mezzo secolo tormentava gli scienziati ha trovato risposta. Il problema riguarda uno fra i fenomeni più affascinanti della natura: il decadimento beta, un processo alla base della trasmutazione di un elemento in un altro.
In particolare, il “decadimento beta meno”, permettendo la trasformazione di un neutrone in una coppia protone-elettrone (più un antineutrino), agisce un po’ come il lancio dei dadi nel gioco dell’oca: consente di avanzare nelle caselle della tavola periodica – la geniale rappresentazione di Mendeleev che compie proprio quest’anno un secolo e mezzo. Ma c’era un problema, una discrepanza fra quanto i calcoli dei fisici nucleari dicevano e quello che poi si osservava: ogni volta che provavano a estrapolare dal tasso di decadimento beta di un neutrone libero – la cui emivita dura circa 15 minuti – quello dei neutroni residenti nei nuclei atomici, il risultato suggeriva tempi più rapidi di quanto fossero in realtà. E non di poco: di un fattore 0.75.
La soluzione non è semplice: ha a che fare con i processi attraverso i quali due neutroni interagiscono fra loro per diventare un protone e un neutrone, e richiede di prendere in considerazione sia la forza debole sia le correlazioni forti presenti nel nucleo. Ma alla fine gli autori dell’articolo pubblicato lunedì scorso su Nature Physics sono giunti a risolvere l’enigma. Fra loro c’è anche una scienziata di origini italiane. Nata a Sassari, in Sardegna, e cresciuta a Trento, dove ha compiuto tutti i suoi studi fino al dottorato, si è poi trasferita negli Stati Uniti, e oggi è deputy group leader del Nuclear Data and Theory Group dell’Llnl, il Lawrence Livermore National Laboratory, in California. Si chiama Sofia Quaglioni, e Media Inaf l’ha intervistata.
Partiamo dalla difficoltà del problema: perché c’è voluto mezzo secolo per arrivare a comprendere le ragioni della discrepanza fra quel che accade al singolo neutrone e quel che invece avviene in un nucleo atomico?
«Ottenere un calcolo preciso ha richiesto, simultaneamente, l’abilità di descrivere in maniera accurata due cose: primo, la struttura del nucleo iniziale e del nucleo residuo; secondo, il contributo della partecipazione di due nucleoni nell’interazione con le particelle deboli (elettrone/positrone e neutrino) durante il decadimento. In passato questo tipo di calcoli a livello microscopico non era possibile, per varie ragioni: la mancanza di modelli accurati per la forza nucleare e per l’interazione dei nucleoni con particelle elettrodeboli, ma anche l’impossibilità di condurre calcoli ab initio per i nuclei coinvolti, per via della mancanza delle necessarie risorse computazionali».
Ora però ci siete riusciti. Merito solo dei nuovi supercomputer o c’è altro?
«Ciò che ha reso possibile questo risultato è il fatto che la teoria effettiva chirale (chiral effective field theory) permette di descrivere in maniera simultanea e accurata – e consistente con la cromodinamica quantistica – le interazione dei nucleoni sia con altri nucleoni che con altre particelle. Questo insieme all’avvento di metodi efficienti per risolvere il problema nucleare a molti corpi (nuclear many-body problem) usando supercomputer».
Supercomputer che nel vostro caso è stato un potentissimo Cray XK7 Titan, con il quale avete simulato, in particolare, il decadimento di un atomo di stagno. Di stagno-100, per la precisione. Perché proprio lo stagno?
«Avendo un ugual numero di neutroni e protoni, 50 e 50, il nucleo di stagno-100 presenta una frequenza di decadimento inusualmente alta, che ha facilitato il confronto con l’esperimento. Inoltre, il nucleo di stagno-100 è doppiamente magico, nel senso che sia i neutroni che i protoni dentro il nucleo riempiono delle shell definite, producendo un’energia di legame particolarmente alta e una struttura relativamente semplice. Il modello coupled cluster utilizzato per risolvere il problema a molti corpi è particolarmente adatto alla descrizione di nuclei doppiamente magici».
Circa le possibili conseguenze del vostro studio, leggo che fate riferimento sia alla nucleosintesi nella fusione di due stelle di neutroni sia al doppio decadimento beta senza neutrini. Cosa ci permetterà di comprendere, la vostra scoperta, in questi ambiti?
«Tutti i processi a cui lei si riferisce sono influenzati dal decadimento beta di nuclei instabili, che nella maggioranza dei casi è estremamente difficile, se non impossibile, da misurare in laboratorio. I modelli di oggetti astrofisici come le supernove o la fusione di stelle di neutroni sono basati su reti di reazioni nucleari, tra le quali anche decadimenti beta (usati come input). E molti sono derivati da modelli teorici. L’incertezza nel valore di queste reazioni e decadimenti introduce incertezza in questi modelli astrofisici. Ecco, il nostro lavoro apre la possibilità di arrivare a predizioni accurate dei decadimenti beta, così da poter ridurre l’incertezza dei modelli astrofisici».
E per quanto riguarda i neutrini?
«Anche il decadimento beta senza neutrino è dovuto all’interazione di nucleoni con particelle deboli, e l’idea è che uno possa usare la stessa metodologia adottata nel nostro lavoro per predire gli elementi di matrice nucleare necessari per estrarre la scala di massa del neutrino di Majorana dall’eventuale misurazione di un decadimento beta senza neutrini».
Dopo tutte queste particelle, una domanda più personale: da Sassari a Livermore passando per Trento… Mai preso in considerazione l’idea di tornare?
«In California si sta bene, e la mia famiglia (ho marito e due figli) al momento sta crescendo qui. Il Lawrence Livermore National Laboratory mi sta offrendo una carriera molto interessante e appagante. Ma sa com’è, nella vita non si sa mai…».
Per saperne di più:
- Leggi su Nature Physics l’articolo “Discrepancy between experimental and theoretical β-decay rates resolved from first principles”, di P. Gysbers, G. Hagen, J. D. Holt, G. R. Jansen, T. D. Morris, P. Navrátil, T. Papenbrock, S. Quaglioni, A. Schwenk, S. R. Stroberg e K. A. Wendt