Gli astronomi dell’Event Horizon Telescope Consortium (Ehtc) sono ottimisti. Dopo quasi due anni di elaborazione e analisi di circa quattro petabytes di dati raccolti dalle osservazioni di Sagittarius A* e M87, realizzate con grande rigore scientifico, verifiche e controlli di qualità, si attende la pubblicazione dei primi risultati. Se questo tentativo avrà successo, le uniche, spettacolari immagini ottenute da un insieme di 8 radiotelescopi sparsi sul globo potrebbero fornire agli astronomi nuovi indizi per verificare le predizioni della relatività generale in condizioni estreme di gravità. Per saperne di più, Media Inaf ha raggiunto Ciriaco Goddi, segretario del consiglio scientifico del consorzio Eht, che ci svela in questa intervista esclusiva il “dietro le quinte” dell’esperimento più atteso dell’anno.
Come sono andate le osservazioni, soprattutto dal punto di vista meteorologico?
«Abbiamo condotto due campagne osservative, la prima nell’aprile 2017 e la seconda nello stesso mese del 2018. Posso affermare, con nostra grande soddisfazione, che le osservazioni del 2017 si sono rivelate un successo totale. Non abbiamo avuto problemi tecnici, se non minimi, e tutti i protocolli necessari per gestire la comunicazione in tempo reale dei radiotelescopi coinvolti nell’esperimento, che hanno osservato simultaneamente la stessa sorgente, hanno funzionato impeccabilmente. Ma il fattore di gran lunga più importante per il successo delle osservazioni sono state le condizioni meteorologiche favorevoli. Abbiamo avuto cieli sereni, è il caso di dire, con pochissima umidità in tutti i siti durante il periodo delle osservazioni e questo non era certamente scontato, perciò siamo stati davvero fortunati. Tuttavia durante le sei notti in cui abbiamo effettuato le osservazioni del 2018 le cose sono andate diversamente. Ricordo, ad esempio, tre notti di tempeste di neve su Mauna Kea nelle Hawaii, la chiusura causa vento per quasi due giorni del Sub-Millimeter Telescope (in Arizona), il nuovo ricevitore commissionato dal Large Millimeter Telescope (in Messico) non disponibile da subito per le osservazioni, lo strumento Atacama Pathfinder EXperiment disponibile in certe notti a causa di lavori tecnici… E tra gli altri un episodio singolare, accaduto in Messico, dove un commando ha assaltato la jeep degli astronomi causando la chiusura dell’osservatorio negli ultimi cinque giorni. Dunque, tutti i nostri sforzi si sono concentrati principalmente sui dati del 2017, che sono di qualità eccellente».
Quante persone sono state coinvolte per realizzare le osservazioni?
«Ci sono almeno tre o quattro persone dell’Event Horizon Telescope Consortium che si recano in ogni sito a condurre le osservazioni. Questo vuol dire una trentina di persone, se consideriamo gli otto osservatori che hanno partecipato all’esperimento. Inoltre, poiché ogni sito costituisce un osservatorio indipendente, con personale tecnico e scientifico specializzato, di solito ci sono altri due o tre astronomi e un operatore tecnico che lavorano di base in ognuno degli osservatori. A queste si aggiunge un gruppo di circa cinque persone che costituiscono il “centro operativo”, che ha sede all’università di Harvard. Quindi in totale parliamo di circa 60 persone. Per quanto riguarda ALlma, solo due membri fanno parte del progetto Eht: un astronomo del Mit-Haystack Observatory, responsabile dello sviluppo e mantenimento del software, e io che sono responsabile della calibrazione e validazione dei dati acquisiti. Entrambi presidiamo alle osservazioni, trascorrendo fino a tre settimane nel deserto dell’Atacama, assieme a decine di altre persone, tra cui astronomi di supporto, operatori tecnici e ingegneri, perciò non ci sentiamo soli».
Le vostre attese hanno avuto un riscontro positivo?
«Direi di sì. Siamo ora nella fase finale di produzione ed elaborazione dei dati, per cui non mi posso sbilanciare molto in questo momento. Posso però dire che i risultati preliminari appariranno a breve su riviste specializzate e, chissà, anche la tanto attesa “foto del secolo” potrebbe essere pubblicata molto presto. Al momento vi posso solo assicurare che non mancheranno le sorprese e i risultati non deluderanno le attese».
Che ruolo ha giocato il radiotelescopio Alma?
«L’Atacama Large Millimeter Array (Alma) è un elemento fondamentale per questo progetto scientifico. Situato nel deserto di Atacama – nelle Ande Cilene, il più alto e secco al mondo, a 5100 metri sul livello del mare – è il radiotelescopio più sensibile mai costruito in banda millimetrica, con ben 54 antenne di 12 metri di diametro (e altre 12 antenne più piccole di 7 metri di diametro). Durante le osservazioni con l’Eht, buona parte delle sue antenne di 12 metri di diametro (di solito una quarantina) vengono combinate creando virtualmente un unico elemento equivalente a un gigantesco radiotelescopio di circa 70 metri di diametro. Questa “trasformazione” (da interferometro a singolo elemento), di cui sono responsabile, richiede un lavoro certosino di calibrazione dei segnali delle singole antenne che permette di avere, alla fine di questo processo, un salto di qualità nelle prestazioni dell’Eht, sia in termini di risoluzione che di sensibilità. In altre parole, Alma agisce come uno strumento di riferimento nel momento in cui dobbiamo analizzare il segnale che proviene dalle altre antenne più piccole e meno sensibili, permettendo così di ridurre il rumore di fondo almeno di un ordine di grandezza. Inoltre, la sua posizione nell’emisfero australe consente di osservare sorgenti importanti, come appunto il nostro centro galattico, Sagittarius A* (Sgr A*), che pensiamo ospiti un buco nero supermassivo di circa 4 milioni di masse solari».
Come si osserva “simultaneamente” Sgr A* – o le altre sorgenti – con i radiotelescopi coinvolti nell’esperimento?
«Gli obiettivi dell’Eht sono sostanzialmente due: il buco nero supermassivo che risiede nel nucleo della nostra galassia (Sgr A*), a circa 26mila anni luce, e M87 il buco nero supermassivo di una galassia ellittica gigante situata a circa 50 milioni di anni luce. Anche se M87 è circa duemila volte più lontana, il buco nero è circa duemila volte più massivo, per cui le dimensioni angolari sottese da entrambi i buchi neri (circa 50 microsecondi d’arco) risultano simili. Per osservare oggetti che sottendono dimensioni angolari così piccole utilizziamo l’interferometria radio a lunghissima linea di base (Vlbi). Si tratta di una tecnica molto potente che permette di realizzare immagini di radiosorgenti ad altissima risoluzione. Il Vlbi sfrutta una rete globale di radiotelescopi, in genere da 12 a 30 metri di diametro, situati nei diversi continenti in modo da formare virtualmente un enorme telescopio delle dimensioni della Terra. Ovviamente, più antenne sono coinvolte e maggiore risulta la qualità dell’immagine finale. Ora, se da un lato non possiamo costruire migliaia di antenne, essendo molto costose, dall’altro la rotazione terrestre ci viene fortunatamente in aiuto, perché cambia la posizione dei singoli telescopi – e perciò delle linee di base – come “visti” dalla sorgente. Questo processo consente effettivamente di campionare meglio la struttura attraverso orientazioni diverse, anche con pochi ma ben localizzati radiotelescopi. In questo caso, la risoluzione dell’immagine aumenta con la distanza tra i radiotelescopi, che chiamiamo linea di base, un po’ simile a quella di una normale antenna il cui potere risolutivo aumenta con il diametro della parabola. I segnali radio che arrivano sulle singole antenne vengono prima registrati dai ricevitori per poi essere digitalizzati e copiati su dischi rigidi. I supporti vengono spediti a un centro di elaborazione dati (non via internet, perché stiamo parlando di petabytes, ma tramite aereo che risulta il mezzo più veloce). Per il nostro progetto abbiamo utilizzato due super-computer, detti correlatori: uno si trova all’Haystack Observatory del Mit, nel Massachusetts, e l’altro è situato presso il Max Planck Institut fur Radioastronomie, a Bonn. Il correlatore combina i segnali tra coppie di antenne creando post-facto l’interferenza delle onde radio rilevate dai singoli radiotelescopi. I segnali devono essere sincronizzati con altissima precisione, il che significa che dobbiamo utilizzare orologi atomici estremamente accurati per misurare i loro tempi di arrivo sulle singole antenne. Una volta che i segnali di tutte le coppie di antenne vengono combinati, possiamo ricostruire l’immagine della sorgente radio. Dunque, operando insieme, le antenne simuleranno un singolo, gigantesco, telescopio delle dimensioni della Terra che ci permetterà di “intravedere” l’orizzonte degli eventi – quel confine che circonda i buchi neri dove tutto ciò che passa non torna mai più indietro – e rivelare la cosiddetta “ombra” del buco nero, che nelle sorgenti in questione ci aspettiamo sottenda una dimensione di 50 microsecondi d’arco (un po’ come distinguere una pallina da tennis sulla Luna)».
A quali frequenze radio sono state condotte le osservazioni?
«L’Eht osserva a lunghezza d’onda radio intorno a 1.3 mm, che corrisponde ad una frequenza di circa 230 GHz. Prima di Eht, la tecnica Vlbi è stata applicata a frequenze radio relativamente basse (1-90 GHz). Nonostante le cose si complichino verso le più alte frequenze, tuttavia ci sono diverse ragioni per spingere il Vlbi oltre i 100 GHz. Primo: il potere risolutivo aumenta con la frequenza e per ottenere la risoluzione desiderata, cioè 50 microsecondi d’arco con un telescopio delle dimensioni corrispondenti al diametro della Terra, si deve andare necessariamente sopra i 100 GHz. Secondo: a frequenze al di sotto di 100-200 GHz, l’ombra del buco nero rimane ancora nascosta dietro al plasma, che circonda il buco nero stesso, oscurandone la vista. Alle alte frequenze a cui opera Eht, come ad esempio 230 GHz, il plasma diventa trasparente ed emette radiazione nelle immediate vicinanze dell’orizzonte degli eventi. Quindi, osservando ad alte frequenze è come se si aprisse una sorta di “velo” che ci lascia intravedere cosa si cela dietro».
Quante ore sono state impiegate per realizzare le osservazioni?
«Come in tutti gli osservatori astronomici, anche per l’Eht il tempo viene assegnato da una commissione di esperti, il Time Allocation Committee (Tac), che dopo aver selezionato diverse proposte osservative valuta il merito scientifico dei singoli progetti. Nella pratica le proposte osservative di Eht sono approvate sostanzialmente dal Tac di Alma, poiché si tratta di gran lunga del radiotelescopio più richiesto del network. Finora, nell’ambito di Eht sono state utilizzate quasi tutte le ore concesse (circa 60 ore sia per il run del 2017 che del 2018) – fatto non scontato, in quanto possono sorgere problemi tecnici o condizioni meteo avverse non prevedibili. Per quanto riguarda il limite massimo di ore a disposizione, con l’Eht ogni singolo radiotelescopio normalmente osserva la sorgente per tutto il tempo possibile, cioè dal sorgere fino al tramonto: quindi avere più ore per sorgente, e per notte, servirebbe a poco. Una cosa molto utile sarebbe, invece, osservare la stessa sorgente a epoche diverse durante l’anno, in modo da evidenziare l’eventuale variabilità dell’emissione radio o l’apparire di nuove componenti. Ciò fornirebbe informazioni importanti sullo stato fisico del plasma che circonda il buco nero (pensate a un blob di gas che orbita intorno al buco nero prima di venire ingoiato). Al momento, però, non è possibile osservare in diversi periodi dell’anno, per un fatto puramente logistico: organizzare campagne osservative globali e coordinare insieme una decina di telescopi è una sfida non da poco. Per cui concentriamo le osservazioni in una finestra di circa dieci giorni all’anno. Ad ogni modo, da quello che impareremo dai dati raccolti finora decideremo se sarà necessario, o meno, cambiare la nostra strategia osservativa».
Quanti dati avete raccolto e quanto tempo ci è voluto per analizzarli?
«Nel 2017 abbiamo raccolto qualcosa come quattro petabytes di dati, ossia 4000 terabytes! Nel 2018 abbiamo registrato una banda doppia, quindi il doppio dei dati (almeno in termini di bytes). L’ordine di grandezza è di un petabyte per telescopio, quindi il volume totale di dati ammonta a circa 10 petabytes. Abbiamo impiegato un anno e mezzo a ridurre, calibrare, validare e analizzare i dati acquisiti nel 2017 e, ovviamente, convertirli in immagini radio delle sorgenti. Devo ammettere che inizialmente eravamo troppo ottimisti, nel senso che avevamo preventivato di produrre i primi risultati entro un anno dalle osservazioni. In realtà, ci sono due ragioni fondamentali che giustificano questo “ritardo”. La prima è che abbiamo avuto bisogno di più tempo per creare tutto il software di analisi necessario, essendo la prima volta che vengono acquisiti dati di questo genere. La seconda ragione è più sottile, ma non meno importante: paradossalmente, capire in maniera estremamente dettagliata e accurata i dati dell’Eht è stato molto difficile proprio per la loro elevata qualità, che ci ha permesso di evidenziare caratteristiche ed errori sistematici che non si sono mai visti prima, essendo “sepolti” nel rumore. Per fortuna il gigante Alma ha giocato un ruolo fondamentale nel processo di elaborazione dei dati, che d’ora in poi – cioè per la seconda serie di dati che analizzeremo – dovrebbe rivelare meno sorprese e procedere più speditamente».
Quali controlli avete introdotto, e quali modalità avete seguito per l’elaborazione dei dati, al fine di evitare eventuali contaminazioni?
«Dato che il nostro obiettivo è quello di “vedere” la famosa ombra del buco nero, che sottende piccolissime dimensioni angolari, e rivelare minime strutture nell’immagine che siano riconducibili a eventuali deviazioni dalle predizioni della teoria di Einstein, abbiamo sempre verificato qualsiasi anomalia durante tutte le fasi di calibrazione e analisi dei dati e, soprattutto, abbiamo eseguito delle analisi indipendenti e una serie di controlli incrociati. Per essere più precisi, al fine di testare la validità dei dati sono stati utilizzati metodi di confronto incrociato seguendo tre passaggi fondamentali. Primo, la correlazione dei dati: i due super-computer (quello del Mit nel Massachusetts e quello del Max Planck Institut a Bonn) hanno correlato indipendentemente i segnali fra coppie di antenne, fornendo prestazioni identiche e rivelando lo stesso segnale. Secondo, la calibrazione dei dati: i dati provenienti dai due correlatori sono stati ulteriormente elaborati con tre software indipendenti, fornendo dei risultati compatibili entro gli errori. Terzo, nel processo di conversione da dati interferometrici a immagini radio abbiamo usato due metodologie distinte: una si basa su metodi tradizionali, che fanno uso di software classici, e un’altra è più innovativa, concepita nel caso specifico di un insieme di antenne che hanno partecipato al progetto Eht. Anche in questo caso le immagini che abbiamo ottenuto dalle analisi parallele sono compatibili entro gli errori. Devo dire che in quasi vent’anni che mi occupo di Vlbi non ho mai visto analizzare un insieme di dati radio con tanta scrupolosità e controlli incrociati. Qualche collega può contraddirmi, se vuole, ma mi sento di affermare che questo è l’insieme di dati radio più esaminato della storia del Vlbi».
Dato che nessuno hai mai visto un buco nero, come facciamo a capire che avremo finalmente “visto” qualcosa?
«Questa non è per niente una domanda scontata. Il nostro obiettivo principale, come astronomi osservativi, è fare delle misure e analizzare i dati nella maniera più accurata, oggettiva e riproducibile possibile. Dopodiché, i nostri risultati vengono esaminati dal gruppo di teorici che passano al setaccio tutti i modelli possibili (inclusi i modelli alternativi ai buchi neri). Da un confronto certosino di questi modelli con i dati, potremo finalmente dare la risposta tanto attesa se si tratta effettivamente di un buco nero, così come previsto dalla relatività generale, oppure no. Vi lascio, per ora, con la suspense. Infatti, uno degli obiettivi a lungo termine del nostro progetto è quello di testare l’ormai centenaria teoria di Einstein, che – nonostante descriva generalmente bene l’universo osservato fino ad oggi – potrebbe presentare alcune deviazioni proprio in prossimità di un buco nero a causa dell’estrema gravità. Quindi, la teoria di Einstein potrebbe non essere la teoria finale dell’universo, che forse dovremo ancora scoprire. Ecco perché c’è un grande interesse nell’osservare queste regioni estreme dello spazio. Insomma, questa famigerata “foto del secolo” rappresenterà un altro passo in avanti nel nostro modo di comprendere i grandi misteri dell’universo e un bellissimo esempio di collaborazione internazionale nell’ambito dello sviluppo tecnologico e del progresso scientifico».
Naviga nel video interattivo a 360° dell’Università dell’Arizona su Eht:
https://www.youtube.com/watch?v=bbOS3pKtg_A