È un asteroide di qualche km di diametro, fra i 4 e i 9 dicono le stime. Avvistato per la prima volta nel 1988. Ma da qualche mese esibisce un comportamento bizzarro: ha una coda. Anzi, due. Come un frac. Due lunghe e sottilissime scie di polvere che lo fanno somigliare a un’elegante cometa. E che invece sono il sintomo di un fenomeno d’autolesionismo: 6478 Gault – questo il suo nome – sta attraversando un processo che potrebbe portarlo all’autodistruzione.
I primi sospetti che qualcosa non andasse sono emersi lo scorso 5 gennaio, quando il telescopio Atlas (Asteroid Terrestrial-Impact Last Alert System), dalle Hawaii, registrò per primo la presenza di una coda. Qualche giorno più tardi, a metà gennaio, altri telescopi – fra i quali il Canada-France-Hawaii e l’Isaac Newton spagnolo – hanno mostrato che le code erano, appunto, due. Una successiva ricerca nei dati d’archivio ha poi permesso di stabilire le date esatte in cui sono comparse: rispettivamente, il 28 ottobre e il 30 dicembre 2018. Dunque un fenomeno molto recente, e destinato a sparire nell’arco di qualche mese, quando la polvere che forma le due scie si disperderà nello spazio interplanetario.
Questo per quanto riguarda l’aspetto. Ma le cause? A cosa sono dovute, quelle due lunghe code, che più si addicono a una cometa? Tre le ipotesi in campo. Una, la più improbabile, è che sia in corso un processo di sublimazione: questo sì che lo renderebbe simile a una cometa, ma i dati raccolti la rendono l’ipotesi meno gettonata.
Una seconda possibilità è che le code si siano formate a seguito di uno o più impatti. C’è però un problema: se così fosse accaduto – scrivono gli autori dell’articolo che descrive la scoperta, in uscita su The Astrophysical Journal Letters – oltre che nelle code dovremmo vedere polvere anche nei pressi del nucleo. E invece pare non essercene traccia, o quasi, nel raggio di 50 metri dalla superficie dell’asteroide. Segno del fatto che il rilascio di materia è avvenuto con una velocità iniziale piuttosto contenuta, dunque incompatibile con l’ipotesi dell’impatto.
Ed è proprio la misura della velocità relativa della polvere – circa 70 cm/s – ad aver convinto gli autori dello studio che probabilmente l’ipotesi corretta è la terza: Gault sta attraversando fasi di autodistruzione dovute al cosiddetto effetto Yorp. Un effetto piuttosto raro: in termini epidemiologici l’incidenza è di uno su un milione, nel senso che su circa 800mila asteroidi conosciuti a esserne colpito è più o meno uno all’anno. Un effetto che predilige i corpi più piccoli: in pratica, ciò che avviene è che la luce del Sole li fa ruotare a velocità sempre più elevata, fino a che non raggiungono una soglia critica oltre la quale cominciano letteralmente a perdere pezzi. Ebbene, il periodo di rotazione di Gault – definito un “rotatore ultraveloce” – è attualmente di circa due ore: pericolosamente vicino alla soglia critica. Non solo: se la stima del diametro è corretta, all’equatore la velocità superficiale si aggira attorno ai due metri al secondo. Compatibile, dunque, con la velocità della polvere presente nelle code.
«Gault è una pistola fumante: è il miglior esempio che abbiamo di un “rotatore veloce” prossimo alla soglia delle due ore», spiega il primo autore dello studio, Jan Kleyna dell’università delle Hawaii (Usa). «Potrebbe essersi mantenuto sull’orlo dell’instabilità per 10 milioni di anni. Poi potrebbe essere stata sufficiente una minima interferenza, l’impatto con un sassolino, per scatenare le recenti emissioni».
Gli scienziati sono anche riusciti a misurare la quantità di materia perduta dall’asteroide nei due eventi del 2018: 7 milioni di tonnellate nel primo, 40mila tonnellate nel secondo. Materia che potrà offrire preziosi elementi per comprendere il processo di formazione dei pianeti agli albori del Sistema solare.
Per saperne di più:
- Leggi il preprint dell’articolo “The Sporadic Activity of (6478) Gault: A YORP-driven event?”, di Jan T. Kleyna, Olivier R. Hainaut, Karen J. Meech, Henry H. Hsieh, Alan Fitzsimmons, Marco Micheli, Jacqueline V. Keane, Larry Denneau, John Tonry, Aren Heinze, Bhuwan C. Bhatt, Devendra K. Sahu, Detlef Koschny, Ken W. Smith, Harald Ebeling, Robert Weryk, Heather Flewelling e Richard J. Wainscoat