IL MEETING A CAGLIARI DAL 5 AL 7 APRILE

Appuntamento al buio: la magia dei planetari

Quanti e quali sono, i planetari italiani? Chi li frequenta? E qual è il segreto del loro successo? Media Inaf lo ha chiesto a Gianluca Ranzini, presidente di PlanIt, l’Associazione planetari italiani, in vista del 34esimo meeting nazionale, in programma questo fine settimana all’Inaf di Cagliari

     02/04/2019

Il Planetario di Milano. Crediti: Stefano Stabile / Wikimedia Commons

Ogni anno, in Italia, centinaia di migliaia di persone entrano in una cupola a riveder le stelle. Una cupola più o meno grande, più o meno stabile, comunque buia. Dove ad accoglierli trovano lo spettacolo della volta celeste e la voce dei planetaristi. Planetaristi che da venerdì 5 a domenica 7 aprile si sono dati appuntamento all’Osservatorio astronomico dell’Inaf di Cagliari per il loro meeting annuale. Arriveranno in una cinquantina da tutt’Italia, in rappresentanza di 20-25 planetari, per confrontarsi su diversi temi: dalle innovazioni tecniche del settore (ci saranno quasi tutte le ditte più importanti a livello mondiale, come Evans&Sutherland, Sky-Skan e Zeiss) alle attività innovative svolte in alcune sedi – come l’astronomia inclusiva, realizzata con strumenti ideati per avvicinare al planetario le persone non vedenti e ipovedenti, ma anche per i non udenti. In programma ci sono poi interventi sulla didattica dell’astronomia, sull’astronomia dantesca, sulla realtà virtuale… Insomma tutto ciò di cui è fatto il mondo dei planetari. E proprio per scoprire qualcosa di più su questo universo under the dome abbiamo raggiunto il presidente di PlanIt (l’Associazione planetari italiani), Gianluca Ranzini.

Partiamo dai numeri. Quanti planetari ci sono, in Italia?

«Uno dei compiti di PlanIt è proprio tenere un censimento delle strutture esistenti, anche se non sempre è facile. Diciamo che in Italia ci sono circa 120 planetari fissi. Di cui circa 40-45 sono del tutto digitali o affiancano un sistema digitale a uno tradizionale di proiezione. La maggior parte dei digitali è però sotto cupole piccole, in media sui 6 metri di diametro».

E il più grande?

«Il più grande in assoluto, 23 metri di diametro, è un planetario particolare: è installato nel parco a tema Rainbow MagicLand di Valmontone. Dove a oltre agli spettacoli dedicati al cielo si fanno anche proiezioni di cartoni animati ecc. Seguono poi il Planetario “Ulrico Hoepli” di Milano (19,6 m, ma solo optomeccanico), e quello nuovo della Città della Scienza di Napoli (17,5 m, solo digitale). Milano è anche il più “antico”, nel senso che è stato inaugurato nel 1930 e da allora, a parte durante la Seconda guerra mondiale, è stato sempre aperto. In Italia, in realtà, aveva aperto prima – nel 1928, se ricordo bene – quello di Roma. Che però ha cambiato diverse sedi (l’ultima all’Eur, dentro al Museo della Civiltà Romana) ma adesso è chiuso. Una storia un po’ triste… Per un anno e mezzo, fino alla fine del 2018, avevano messo un sistema digitale alla Vecchia Dogana, dietro stazione Termini, ma adesso hanno tolto anche quello».

Sono tutti uguali o ce n’è qualcuno particolare, più insolito degli altri?

«I più curiosi forse sono quelli che consentono anche la proiezione in 3D stereoscopico: non sono molti, direi Valmontone, Napoli e Bolzano. Oppure, considerata la mole di pubblico, quello di Milano, che essendo solo optomeccanico non consente di mandare show registrati, e quindi tutto si fa dal vivo. Morale: ogni spettacolo è diverso dall’altro».

Gianluca Ranzini, presidente di PlanIt, l’Associazione planetari italiani

Ecco, a proposito degli spettacoli: oggi che chiunque può vedere il cielo quando vuole, a richiesta, nel proprio tablet o sullo smartphone, cosa spinge il pubblico ad assistere a uno show al planetario?

«È vero che oggi possiamo vedere il cielo nello smartphone, ma è anche vero che oggi sono pochi quelli che guardano il cielo “vero”. Il planetario consente di avere una visione realistica della volta celeste, come se fossimo all’aperto. Ed è una cosa che sorprende ancora molto il pubblico, che appunto non è abituato in genere ad alzare gli occhi verso le stelle. Quindi credo che la prima motivazione per chi viene nei planetari sia emozionale: soprattutto nelle sale grandi, quando viene buio e appaiono le stelle, si sente sempre un “ohhhh…” di meraviglia. La seconda motivazione è sapere qualcosa di più su un tema, l’astronomia, che affascina moltissime persone ma che viene praticata professionalmente da pochi. I planetari svolgono quindi un compito davvero fondamentale per la divulgazione e la didattica delle scienze del cielo, sia nei confronti delle scuole sia del pubblico generale».

Di quanti visitatori parliamo?

«Ogni anno frequentano i planetari italiani circa 500mila persone. Tenete conto che Milano fa 130mila presenze, Napoli più o meno uguale e Valmontone credo sullo stesso livello. Infini.to di Torino è sui 40mila. Quindi i quattro più grandi e attivi fanno il grosso del pubblico. Ma poi c’è una distribuzione capillare di strutture più piccole, tra 6 e 10 metri, che hanno parecchio riscontro sul proprio territorio: cito a caso i più significativi: Modena, Ravenna, Firenze (Fondazione Scienza e Tecnica), Bolzano (bello e in una splendida location a San Valentino in Campo), Caserta, Reggio Calabria, Genova, Padova, Brembate di Sopra (molto bello), Lumezzane (BS), Bari, Cagliari (Unione Sarda), Isnello, Zafferana Etnea… E poi sicuramente c’è la “nuova generazione” dei planetari Inaf, che stanno crescendo: Cagliari, Capodimonte, Torino, eccetera. Infine ci sono i moltissimi piccoli planetari nelle scuole, soprattutto istituti tecnici aeronautici e navali, dove si studia ancora l’orientamento con le stelle. E, ancora, ci sono molti piccoli planetari itineranti sotto cupole gonfiabili che vanno in giro per scuole, centri commerciali, fiere e altri eventi».

Lei ricorda qual è stato il suo primo planetario? Com’era?

«Io mi sono appassionato all’astronomia quando ero al liceo. Ho iniziato a frequentare il Planetario di Milano, che non era lontano da casa mia. Mi ricordo le conferenze di personaggi come Mario Cavedon, che è stato uno dei pilastri del Planetario di Milano dal dopoguerra agli anni Ottanta, e che è stato astronomo in Francia, e poi a Brera. E anche di Franco Potenza, un grande fisico che progettava strumenti di tutti i tipi: ha avuto a che fare anche con il telescopio nazionale italiano, quando ancora pensavano di installarlo in Italia, in Calabria o in Sardegna. Cavedon faceva conferenze sull’osservazione del cielo, i miti, le costellazioni ecc. Potenza invece trattava temi di astrofisica, evoluzione stellare, cosmologia… Roba tosta. Ho comprato anche un piccolo telescopio, un 114, con il quale, dal centro della città riuscivo a vedere perfino un po’ di ammassi aperti e globulari».

Tornando al presente: qual è, oggi, l’ingrediente principale per il successo di un planetario?

«In questa era – iniziata da meno di 20 anni – dei planetari digitali, secondo me il rischio è che il planetario si trasformi in un cinema, che sforna uno dopo l’altro spettacoli registrati. Affascinanti e di altissima qualità, ma impersonali. Il segreto del successo, secondo me, è saper dosare la tecnologia e il rapporto umano, con attività che sfruttino le potenzialità straordinarie dei sistemi digitali ma che abbiano anche una componente umana di interazione diretta con il pubblico. Inoltre, è importante offrire un programma per tutte le età – nei planetari vengono moltissime famiglie con bambini – e per tematiche: hanno molto successo anche le serate che accostano astronomia e musica dal vivo, per esempio, o attività teatrali sotto la cupola. Insomma, usi diversi da quello della conferenza tradizionale – oggi si preferisce parlare di “attività” piuttosto che di “conferenze”. Ultima cosa: in base alla mia esperienza, il pubblico negli ultimi 20-25 anni è cambiato molto. E con il pubblico – ovviamente anche per le nuove tecnologie – sta cambiando anche la modalità di fruizione della cultura, scientifica in questo caso: oggi è necessario un approccio più veloce, immediato, diretto, interattivo. Insomma, le classiche conferenze non vanno più. Ci vuole più fantasia».