Mercoledì 10 aprile 2019 è stata una giornata storica per l’astronomia. Il team dell’Event Horizon Telescope (Eht), un insieme di otto radiotelescopi sparsi sul globo, ha mostrato al mondo la prima immagine di un buco nero supermassivo nel nucleo della galassia ellittica gigante Messier 87 (M87). La “foto del secolo” è stata il frutto di quattro giorni di intense osservazioni e di decine di mesi trascorsi a calibrare e analizzare quattro petabyte di dati. Ciò che è stato osservato è incredibile: una struttura asimmetrica ad anello consistente con l’emissione attesa dall’orizzonte degli eventi in cui si osserva la cosiddetta “ombra del buco nero”, un oggetto di oltre 6 miliardi di masse solari confinate in un’area di cielo equivalente a circa tre volte le dimensioni del Sistema solare. Ma che cosa ha osservato in definitiva Eht? Cosa implicano questi risultati per la teoria della relatività generale? Abbiamo davvero aperto una nuova era dell’astrofisica dei buchi neri? A un mese esatto dallo storico annuncio, Media Inaf lo ha chiesto a Heino Falcke e a Ciriaco Goddi, rispettivamente presidente e segretario del Consiglio scientifico dell’Eht.
Nella teoria della relatività generale, il buco nero rappresenta una soluzione permessa alle equazioni di Einstein che nel caso più semplice è definito da una regione sferica gravitante in cui la massa è concentrata in un singolo punto che gli astronomi chiamano “singolarità”. La curvatura dello spaziotempo è descritta dal raggio di Schwarzschild, da cui nemmeno la luce può sfuggire. Questa regione viene chiamata orizzonte degli eventi.
I buchi neri si presentano con una varietà di masse. Da un lato esistono oggetti di massa stellare, il risultato del collasso gravitazionale di stelle massive, e dall’altro i buchi neri supermassivi, che possono raggiungere decine di miliardi di masse solari e che si ritiene alimentino i nuclei nella maggior parte delle galassie attive e i getti relativistici che si estendono nello spazio per decine di migliaia di anni-luce. Nonostante un buco nero sia “nero” per definizione, la materia che lo circonda accelera e si riscalda mentre si accresce e questo calore si trasforma in radiazione che rende incredibilmente luminosi i nuclei delle galassie.
Perché M87?
Esistono pochissimi candidati ottimali per realizzare l’immagine dell’ombra di un buco nero. I buchi neri di massa stellare – soltanto nella nostra galassia ce ne sono alcuni milioni – sottendono delle dimensioni angolari molto piccole, così come la maggior parte dei buchi neri supermassivi.
«Il primo target naturale è ovviamente il centro della nostra galassia, a 26mila anni-luce da noi», spiega Goddi, «che pensiamo ospiti un buco nero di circa quattro milioni di masse solari (Sagittarius A*, o in breve Sgr A*), abbastanza vicino per Eht. Questo lo rende un milione di volte più massiccio – come ordine di grandezza, e quindi anche fisicamente più grande – di un buco nero stellare e migliaia di volte più vicino rispetto ad altre galassie. Secondo i nostri calcoli, la dimensione angolare dell’ombra risulta di circa 50 microsecondi d’arco: un po’ come osservare dalla Terra una pallina da tennis sulla superficie della Luna».
Analogamente, il buco nero in M87, la cui massa viene stimata essere almeno alcuni miliardi di volte la massa del Sole, è abbastanza grande da permettere ancora a Eht di osservare la sua ombra, nonostante si trovi a circa 55 milioni di anni luce.
«Abbiamo fatto dei conti molto semplici», continua Goddi. «Sappiamo che le dimensioni spaziali (il raggio) di un buco nero crescono linearmente con la massa. Invece, la dimensione angolare sottesa, cioè come noi lo vediamo dalla Terra, decresce linearmente con la distanza. Quindi ci serviva un oggetto estremamente massiccio e il più vicino possibile. Anche se Sgr A* è il target più vicino, sin da subito abbiamo individuato in M87 il candidato ideale. Perciò, nonostante il buco nero al centro di M87 sia circa 2000 volte più distante, è fortunatamente 1500 volte più massiccio, e quindi le dimensioni angolari del buco nero risultano leggermente più piccole di quelle di SgrA* ma sono ancora confrontabili».
La foto del secolo
I media hanno parlato di “foto”, ma quella mostrata dagli astronomi non è una vera e propria foto nel senso comune a cui siamo abituati. «Si tratta di un’immagine astronomica, reale a tutti gli effetti», fa notare Goddi. «Non è un falso o una simulazione. Se poi si tratti di una foto o meno è solo una questione di nomenclatura. In altre parole, se per foto si intende quella che si scatta con una macchina fotografica, o comunque con un dispositivo dotato di sensore che raccoglie luce visibile ai nostri occhi, allora non si tratta di foto, non nel senso stretto del termine».
In realtà, la foto è una mappa dell’emissione di onde radio emesse dal plasma incandescente che orbita attorno al buco nero prima di precipitare dentro l’orizzonte degli eventi. «Gli otto radiotelescopi che formano Eht raccolgono onde radio, non visibili all’occhio umano», spiega Goddi. «Dunque, se i nostri occhi fossero sensibili alle onde radio (cioè se funzionassero come antenne) e potessimo avvicinarci al buco nero di M87, sintonizzandoci sulla frequenza di 230 GHz (quella usata da Eht), allora vedremmo più o meno l’immagine che abbiamo mostrato. L’emissione radio di M87* è stata elaborata in falsi colori. In particolare, abbiamo scelto i toni dal rosso al giallo per rappresentare il plasma ad alta temperatura, ma avremmo potuto usare altre tonalità. Questa operazione corrisponde alla trasposizione visiva di informazioni invisibili (appunto le onde radio), perciò abbiamo usato il termine ‘foto’ con il grande pubblico, anche se di solito nelle nostre relazioni scientifiche scriviamo immagine».
Produrre l’immagine finale non è stato così semplice. Infatti, il team Eht ha dovuto mettere insieme i pezzi di un puzzle, affrontare il problema della validazione dei dati e analizzare migliaia di modelli. «Abbiamo cercato di comporre una sorta di mosaico colmando i pezzi mancanti per arrivare all’immagine finale», ricorda Goddi. «Gran parte del lavoro è stato dedicato ad assicurarci che l’immagine ottenuta fosse reale e non fosse, invece, guidata dalle nostre aspettative. Quattro squadre hanno lavorato in modo indipendente e senza interagire, per minimizzare qualsiasi possibilità di introdurre elementi di soggettività nell’elaborazione dei dati. Alla fine abbiamo confrontato i risultati e abbiamo appurato che tutte le squadre avevano ottenuto un’immagine con una caratteristica simile: un anello di diametro di circa 40 microsecondi d’arco con una distribuzione di brillanza asimmetrica (più brillante verso il basso). Non solo, ma abbiamo elaborato indipendentemente i dati relativi a quattro giorni diversi, ottenendo risultati confrontabili».
L’anello di luce
La struttura ad anello è dovuta alla presenza di plasma che si accresce lentamente attorno al buco nero supermassivo in M87 che, a sua volta, alimenta un getto relativistico estremamente brillante e collimato. In prossimità dell’orizzonte degli eventi, la materia emette radiazione luminosa che viene distorta dal campo gravitazionale del buco nero.
«L’anello è prodotto dalla luce che si muove in circolo attorno al buco nero», spiega Falcke. «Questa è una proprietà della forte curvatura dello spaziotempo attorno al buco nero. La regione più scura all’interno dell’anello è dovuta al fatto che la luce scompare al di là dell’orizzonte degli eventi».
In altre parole, ciò che stiamo osservando è la luce che subisce un effetto di lente gravitazionale verso di noi e, dato che il materiale in caduta verso il buco nero si sta muovendo a velocità prossime a quelle della luce, la radiazione viene amplificata. «L’anello risulta più brillante nella parte inferiore poiché la materia sta ruotando in senso orario, e verso di noi, con velocità relativistiche e ciò amplifica la sua luminosità. Almeno questo è quanto ci aspettiamo dalla relatività generale che spiega molto bene le nostre osservazioni», dice Falcke.
Dunque, il risultato è una struttura asimmetrica a forma di anello che circonda una regione centrale scura, per l’appunto la “ombra”, che si estende diverse volte il raggio dell’orizzonte degli eventi. L’ombra diventa così una sorta di “pistola fumante” che fornisce quell’indizio della presenza di un buco nero di grossa taglia.
La determinazione della massa
La massa di M87* è stata argomento di controversie, dato che alcune precedenti misure hanno fornito valori tra circa 3 e 6 miliardi di masse solari ottenuti, rispettivamente, da osservazioni del moto del gas e delle stelle. «In realtà, entrambi i metodi forniscono dei valori che differiscono sistematicamente di un fattore due», dice Falcke. «Il nostro valore è stato ottenuto direttamente su scale prossime all’orizzonte degli eventi ed è consistente con le osservazioni del moto delle stelle. Temo che i nostri risultati portino a una revisione della scala di massa e all’esigenza di avere misure più precise anche per altre galassie».
Testare la relatività generale
I buchi neri rappresentano certamente un ambiente estremo, dove la relatività generale può venire meno, perciò le osservazioni di Eht su scale del microsecondo d’arco costituiscono un test fondamentale per vagliare la teoria di Einstein. «Tutto ciò che osserviamo è in accordo con le predizioni di Einstein», sottolinea Falcke. «Tuttavia, c’è ancora un’incertezza sistematica nella scala di massa in M87. Il test potrà essere effettuato molto meglio in futuro con le osservazioni del nostro centro galattico».
Dunque, a quanto pare, gli scienziati non hanno trovato particolari deviazioni dalla relatività generale che potrebbero essere spiegate da altri modelli della gravità. «Naturalmente, non possiamo escludere tutte le alternative ai buchi neri con una sola osservazione», fa notare Falcke. «Se abbiamo un modello che sembra quasi quello di un buco nero, allora questo modello potrebbe essere ancora consistente con i nostri dati. Se riusciremo a produrre immagini ancora più nitide e ad alta risoluzione angolare, allora potremmo forse vedere eventuali deviazioni dalla teoria di Einstein. Certo, sarebbe fantastico ma non ci scommetterei la mia vita».
Ottenere un’immagine radio così complessa non è semplice e i primi risultati ottenuti da Eht lo dimostrano. «Il vantaggio di risolvere l’ombra è dovuto al fatto che la sua forma e dimensione dipendono fortemente dalla massa e molto meno dallo spin del buco nero», spiega Falcke. «In qualche modo, ci aspettiamo sempre di vedere l’ombra, anche se essa non ci fornisce facilmente l’informazione sulla rotazione del buco nero. Perciò, al momento non siamo sicuri di quanto velocemente ruoti M87* e spero che in futuro osservazioni più precise ce lo diranno».
Ad ogni modo, applicando alle immagini un modello semplice della struttura ad anello si ottiene un valore della dimensione dell’ombra intorno a 40 microsecondi d’arco, consistente con quella prodotta da un buco nero di Kerr (cioè in rotazione) di quasi 6,5 miliardi di masse solari.
Il getto relativistico
Uno dei problemi relativi all’astrofisica dei buchi neri riguarda la formazione dei getti relativistici che si estendono nello spazio per migliaia di anni-luce, così come si osserva nel caso del getto luminoso di M87. «I getti hanno origine da regioni molto prossime all’orizzonte degli eventi e si formano grazie alla rotazione dei campi magnetici e a volte anche a seguito dell’estrazione di energia dovuta alla rotazione del buco nero», dice Falcke. «Quale dei due processi sia dominante dipende dalle proprietà del buco nero, cioè dal suo spin e dal tasso di accrescimento che non sono noti con precisione».
Gli scienziati hanno di fatto confrontato l’immagine ottenuta da Eht con osservazioni precedenti e con i modelli del getto relativistico di M87. «Da qualche anno siamo in grado di simulare i getti relativistici che assomigliano molto a quelli che osserviamo realmente», dice Falcke. «Il fatto che ora i nostri modelli siano in accordo con le osservazioni su scale che vanno dall’orizzonte degli eventi fino a migliaia di volte il raggio di Schwarzschild dimostra che siamo sulla buona strada. È un po’ come se avessimo in mano gli strumenti giusti per comprendere la loro formazione».
Il team Eht ha poi esaminato alcuni modelli alternativi al buco nero di Kerr per spiegare la struttura osservata. Ad esempio, particolari oggetti esotici potrebbero produrre analogamente la stessa immagine (non polarizzata) ma nuovi vincoli deriveranno certamente dai dati polarimetrici. «Abbiamo misurato la polarizzazione della luce ma non l’abbiamo ancora analizzata», ricorda Falcke. «Da questi dati ci aspettiamo preziose informazioni sull’orientamento e la struttura dei campi magnetici in quella regione dove si originano i getti relativistici».
Gli astronomi sono convinti che l’analisi polarimetrica dei dati prodotti da Eht li aiuterà a porre ulteriori vincoli per spiegare meglio l’immagine radio. L’aggiunta di altre antenne sarà decisamente importante per incrementare la percentuale di fiducia nella realizzazione dell’immagine, permettendo così di collegare in linea teorica le strutture rivelate su scale dell’ombra con quelle del getto relativistico.
«In futuro, vorremmo aggiungere nuovi telescopi al network», dice Goddi. «In particolare, nel 2020 avremo un nuovo radiotelescopio in Arizona (Kitt Peak) e uno in Francia (Northern Extended Millimeter Array, Noema). Dopo il 2020, l’obiettivo sarà avere un telescopio in Argentina (Large Latin American Millimeter Array, Llama) e uno in Africa (Africa Millimetre Telescope, Amt). Avere un telescopio in Africa sarebbe molto importante, in quanto potrebbe fornire una buona reciproca visibilità con l’Europa, Pico Veleta e Noema (che al momento hanno poca reciproca visibilità con i telescopi delle Americhe). Il progetto Eht prevede, inoltre, di avere un telescopio in Namibia, alla stessa latitudine di Alma. Non solo: per raggiungere una migliore risoluzione angolare vogliamo utilizzare frequenze più alte di 230 GHz, quando il plasma diventa ancora più trasparente, per definire ancora meglio l’ombra».
Ma il vero salto di qualità sarà andare nello spazio, anche perché le dimensioni della Terra sono finite. «Il nostro grande obiettivo è usare la tecnica Vlbi con i satelliti in orbita che ci permetteranno di non essere più vincolati alle dimensioni del nostro pianeta, raggiungendo così risoluzioni angolari più elevate», aggiunge Goddi. «Questo implica avvicinarci ancora di più all’orizzonte degli eventi e aumentare il contrasto dell’immagine di M87* e, possibilmente, quelle dei buchi neri in altre galassie. Insomma, vogliamo migliorare le nostre misure e testare ancora più precisamente la relatività generale».
Che fine ha fatto Sgr A*?
Eht è stato concepito per osservare anche Sgr A*, il secondo obiettivo dell’esperimento. Ma allora come mai il team non ha mostrato alcuna immagine del buco nero supermassivo al centro della Via Lattea? «Sapevamo da sempre che Sgr A* è più complicato da osservare, ma almeno conosciamo la sua massa», dice Falcke. «Se M87* fosse stato più piccolo di un fattore due, non saremmo stati in grado di vedere la sua ombra. Perciò è stata una scommessa e devo dire che siamo stati fortunati. Sgr A* è 1500 volte più leggero di M87*, perciò 1500 volte più piccolo, ma è anche 2000 volte più vicino. Questo vuol dire che la struttura ad anello risulta più grande. In questo caso, il plasma si muove 1500 volte più velocemente attorno a Sgr A*. Se per M87* il gas impiega un paio di settimane per compiere un’orbita attorno a M87*, nel caso di Sgr A* occorreranno circa 20 minuti. Perciò, abbiamo bisogno di integrare un paio d’ore per realizzare un’immagine».
«Mentre M87* si comporta come una sorta di grande orso seduto in letargo, Sgr A* appare come un bambino piccolo, iperattivo che si muove e si agita sulla propria sedia mentre tentiamo di scattargli una foto a lunga esposizione», continua Falcke. «In più, la radiazione di Sgr A* deve attraversare la Via Lattea mentre viene diffusa dal mezzo intergalattico, a tratti ionizzato, che introduce un ulteriore sfocatura nell’immagine. Questi effetti devono poi essere eliminati e le simulazioni ci indicano che per far questo occorre mediare diverse osservazioni nel corso di più anni».
Insomma, sembra che dovremmo ancora attendere per vedere la prima immagine del buco nero della nostra galassia e gli scienziati non si vogliono sbilanciare. «Forse, realizzeremo quanto prima un’immagine accettabile di Sgr A*. Per ora, pensiamo di aver raccolto già tanta informazione con i nostri dati preliminari, ma dobbiamo ancora lavorarci e non abbiamo nemmeno iniziato a farlo sul serio. In tal senso, non mi sento di dare una data precisa finché non avremo effettuato uno studio approfondito e analizzato le eventuali difficoltà. L’immagine di M87* è risultata migliore di quanto ci aspettavamo. Sgr A* è il contrario. Chi lo sa.»
Un risultato storico
L’immagine di M87* rappresenta senza alcun dubbio un risultato storico. «Vedere la prima immagine di un buco nero è stato come trovarsi per la prima volta faccia a faccia con un vecchio amore», dice Falcke. «Qualcuno che sapevi esistesse, di cui avevi sentito parlare, a cui hai scritto delle lettere, di cui immaginavi il suo aspetto ma che non avevi mai incontrato personalmente. Ora la vedi per la prima volta e sai che è reale. Da quel momento, inizia una nuova fase della relazione. La stessa cosa sta accadendo qui».
«C’è stata un’epoca prima che fossimo in grado di vedere un buco nero e ora siamo entrati nella fase successiva», aggiunge Falcke. «Oggi i buchi neri fanno parte della nostra realtà. Li possiamo vedere e studiare e possiamo testare le nostre teorie. È un sogno che diventa realtà. Uno degli oggetti più esotici e bizzarri che si può immaginare sulla base della fisica che conosciamo, ora lo possiamo ammirare».
La realizzazione della prima immagine di un buco nero è anche una storia, per certi versi romantica, che ha visto uno dei suoi principali protagonisti perseverare nella ricerca della verità affinché il proprio sogno si realizzasse. «Venticinque anni fa, quando ho scelto di fare astrofisica, ho capito che ‘vedere’ i buchi neri non era forse del tutto pura fantasia e ho dedicato la mia carriera per fare in modo che questo mio desiderio si realizzasse. Alla fine, trovarsi di fronte per la prima volta all’immagine dell’ombra di un buco nero e far parte di un grande team che ha reso possibile tutto questo, per me è un privilegio e un’esperienza travolgente».
«Non solo, ma sono stato colpito dalla reazione a livello mondiale», sottolinea Falcke. «Sapevo quanto era importante, per me personalmente, ma non avrei mai pensato di quanto fosse altrettanto importante per gli altri. Tanta gente, di diversa cultura, mi ha detto di essere rimasta meravigliata e persino toccata da questa immagine che, secondo gli esperti, ha raggiunto circa 4,5 miliardi di persone in tutto il mondo. Con le dovute proporzioni, è stato un po’ come l’allunaggio, un grande momento di scienza che abbiamo tutti condiviso».
«Se c’è voluto il mondo per scattare questa foto, noi l’abbiamo condivisa con il mondo e il mondo l’ha abbracciata in una maniera tale che non mi sarei mai aspettato», ricorda Falcke. «È qualcosa di clamoroso che va al di là della scienza, forse perché i buchi neri rappresentano davvero la fine dello spazio e del tempo e pongono un limite fondamentale alla nostra abilità di conoscere ed esplorare. Ora possiamo vedere quell’ultima frontiera, possiamo guardare il mostro dritto negli occhi».
Insomma, Einstein ha superato l’ennesimo test e questa spettacolare immagine di un mostro celeste – che può contenere qualcosa come 6,5 miliardi di soli e che si cela nel cuore di una galassia ellittica gigante a 55 milioni di anni-luce – ha davvero aperto senza alcun dubbio una nuova era nel campo dell’astrofisica dei buchi neri. «Quando si studia la gravità e lo spaziotempo, credo che ci troviamo veramente di fronte a una nuova era dell’astrofisica moderna», dice Falcke. «Eht, Ska, Ligo e Virgo ci permetteranno di studiare sempre più in dettaglio le regioni più estreme della gravità, dagli oggetti stellari fino ai buchi neri supermassivi. A questo si aggiunge anche l’astronomia a raggi-X. Non abbiamo un solo strumento, ma ne abbiamo tanti e tra loro indipendenti che ci permettono di studiare i buchi neri in un modo senza precedenti. Ciò darà alla comunità scientifica una spinta completamente nuova e di sicuro susciterà tanta ricerca teorica. Lo studio della relatività generale è ancora giovane ed entusiasmante. La comparsa sulla scena di un nuovo Einstein è solo questione di tempo, se ci sarà qualcosa di nuovo da scoprire. Ed io lo spero tanto!»
Questa non è certamente la fine della storia ma rappresenta chiaramente solo l’inizio e il team Eht continuerà le proprie ricerche. Per quanto riguarda M87*, le osservazioni future permetteranno di caratterizzare la stabilità e la forma geometrica dell’ombra del buco nero in modo più accurato. «In particolare, ci aspettiamo che la sua dimensione rimanga costante nel tempo, in quanto la massa di M87* non dovrebbe variare su tempi scala umani», conclude Goddi. «Ad ogni modo, uno dei passi successivi del progetto Eht sarà quello di passare da un’immagine statica a un filmato».