Giovedì 23 maggio alle 22:30, SpaceX – l’azienda di Elon Musk – ha lanciato 60 satelliti Starlink dalla base di lancio SLC-40 (Space Launch Complex 40) di Cape Canaveral, in Florida. Starlink è una rete satellitare di prossima generazione in grado di connettere il mondo, in particolare le zone che non sono ancora connesse, con servizi Internet a banda larga affidabili e convenienti.
Il primo stadio del Falcon 9, il vettore a due stadi di Space X utilizzato per questa missione, era già stato usato nel settembre del 2018 per la missione Telstar 18 Vantage e nel gennaio del 2019 per la missione Iridium-8. Dopo la separazione, è atterrato magistralmente sulla piattaforma Ocisly (Of course I Still Love You), nell’Oceano Atlantico. Circa un’ora e due minuti dopo il decollo, i satelliti Starlink sono stati rilasciati a un’altitudine di 440 km e successivamente si sono posizionati nell’orbita di esercizio a 550 km di quota. Il filmato del lancio e del rilascio dei satelliti è visionabile sulla pagina di SpaceX.
Questi 60 satelliti rappresentano solo il primo passo per Starlink poiché, per entrare ufficialmente in funzione, i satelliti dovranno essere molti di più. Complessivamente, SpaceX ha in programma di schierare quasi 12mila satelliti entro la metà del 2027: oltre ai 1600 a 550 km, ne sono previsti 2800 in banda Ku (K-under band, frequenze comprese tra 12 e 18 GHz) e Ka (K-above band, frequenze tra i 27 e i 40 GHz) a 1.150 km e 7500 in banda V (frequenze tra 40 e 75 GHz) a 340 km.
Già per l’inizio del 2020 dovrebbero essere numerose le aree del pianeta servite da Starlink, mentre per la copertura completa del servizio bisognerà attendere il 2027. Questa rete di satelliti permetterà di ottenere una copertura mondiale senza precedenti, fornendo connettività anche alle aree particolarmente isolate del pianeta.
Ogni satellite pesa circa 227 kg – non molto rispetto al peso dei classici satelliti usati per le telecomunicazioni – per massimizzare la produzione e inviarne il maggior numero in un singolo lancio. Per regolare la loro posizione sull’orbita, mantenere l’altitudine prevista e per effettuare le operazioni di de-orbiting, i satelliti Starlink dispongono di propulsori a effetto Hall alimentati al krypton, invece del classico xenon, in quanto il costo del krypton è circa il 90 per cento inferiore. Un sistema di navigazione con star-tracker garantisce un preciso puntamento. Le antenne sono piatte, senza parti mobili, e sfruttano la sincronizzazione di fase multipolare per direzionare il fronte d’onda verso l’obiettivo desiderato (phased array). La frequenza di downlink (ossia la frequenza alla quale avviene la trasmissione del segnale verso terra) va da 10.7 a 12.7 GHz, mentre le trasmissioni inter-satellite dovrebbero avvenire a frequenze più alte. Tutti i satelliti sono in grado di tracciare i detriti in orbita, evitando autonomamente la collisione. Inoltre, il 95 percento di tutti i componenti brucerà rapidamente nell’atmosfera terrestre alla fine delle operazioni.
Viste le bande operative di Starlink, abbiamo intervistato alcuni radioastronomi per capire se possa esserci un impatto sulla scienza.
«Sarà un macello», sorride Jader Monari, ingegnere dell’Istituto di radioastronomia dell’Inaf di Bologna, «specialmente nelle bande K (Ku e Ka) sarà quasi impossibile fare osservazioni. Anche tutti i radiometri da terra che misurano a 22 GHz le colonne di vapore acqueo per esperimenti Vlbi saranno accecati da questi minisatelliti».
Dello stesso parere è Tiziana Venturi, direttrice dell’Istituto di radioastronomia dell’Inaf di Bologna. «Considerando che si sta andando verso una copertura completa dello spettro radio alle frequenze del GHz», spiega a Media Inaf, «questi satelliti potrebbero decisamente costituire un problema per la radioastronomia. Il Very Large Array, ad esempio, osserva già su tutta la banda tra 1 e 50 GHz; lo European Vlbi Network sta sviluppando un ricevitore che coprirà tutta la banda tra 1.4 e 15 GHz. Di fatto, lo spettro di sincrotrone di oggetti galattici ed extragalattici (ad esempio stelle in tutte le fasi della loro evoluzione e nuclei galattici attivi) presenta emissione in quelle bande, e sarebbe una grossa perdita di informazione se diventassero inaccessibili dalla Terra».
«Starlink è indubbiamente un progetto molto affascinante dal punto di vista spaziale. Tuttavia, grossi benefici nella connettività globale indubbiamente portano a un inquinamento elettromagnetico che potrebbe rendere difficili sia le osservazioni radio e millimetriche (ad esempio con Alma, che lavora da 35 fino a 950 GHz), sia quelle amatoriali di chi osserva e fotografa il cielo per diletto. Il rischio è di togliere a tutti la possibilità e la bellezza di poter osservare il cielo», conclude Fabrizio Villa, ricercatore dell’Osservatorio di astrofisica e scienza dello spazio dell’Inaf di Bologna.
Insomma, forse sarebbe il caso di chiedere a Elon Musk di costruire una rete di radiotelescopi sulla Luna per poter osservare quello che, da sotto la coperta dei suoi 12mila satelliti, non sarà più possibile osservare dalla Terra.
Integrazione del 01.06.2019: aggiunto un tweet dello stesso Elon Musk sull’argomento
Per saperne di più:
- Leggi sempre su Media Inaf l’articolo (pubblicato successivamente) “Starlink e radioastronomi, c’è coordinamento”