LAMPO AL MAGNESIO PER ETA CARINAE

La Nebulosa Omuncolo si veste di nuovi colori

È già stata ripresa in tutte le maniere possibili, eppure il telescopio spaziale Hubble, osservando in ultravioletto i residui bilobati della grande eruzione di Eta Carinae, è riuscito ad aggiungere un nuovo tassello per ricostruire il meccanismo fisico che ha portato all’esplosione di questa supergigante blu 170 anni fa

     02/07/2019

Immagine composita di Eta Carinae ottenuta da Hubble nel 1995 con la Wide Field and Planetary Camera 2. Crediti: Nasa, N. Smith (University of California, Berkeley)

Per oltre un secolo e mezzo, Eta Carinae è stata una delle stelle più luminose e più enigmatiche della Via Lattea australe. In realtà si tratta di un sistema binario, cioè di due astri legati gravitazionalmente, con una massa complessiva di almeno 100 volte quella del Sole e una luminosità milioni di volte superiore.

Con questi numeri, non poteva certo avere una vita tranquilla. Parte della sua strabordante natura si è rivelata nel 1838, quando si è prodotta in una gigantesca esplosione, che ha espulso la nebulosa di gas incandescenti a forma di omino di neve che la contraddistingue, chiamata appunto Nebulosa Omuncolo. Oltre a rendere Eta Carinae una dei più belli e più frequentemente fotografati oggetti nel cielo notturno, l’omuncolo gigante contiene informazioni sulla sua stella madre, oltre a indizi sul meccanismo che ha portato all’ultima grande esplosione.

Anche il telescopio spaziale Hubble ha ripreso Eta Carinae con le diverse fotocamere di cui è stato progressivamente dotato nel corso della sua quasi trentennale carriera. L’ultima immagine, ripresa con la Wide Field Camera 3, è quella a più alta risoluzione ottenuta da Hubble, e offre una visione speciale dei gas in rapidissima espansione della nebulosa, che sfavillano come fuochi d’artificio in rosso, bianco e blu. La caratteristica saliente dell’immagine corrisponde proprio al colore blu, un colore scelto arbitrariamente per rappresentare le osservazioni effettuate da Hubble in ultravioletto, una luce altrimenti invisibile all’occhio umano.

Ultima immagine composita di Eta Carinae e della Nebulosa Omuncolo ripresa da Hubble con la Wide Field Camera 3. Il bagliore del magnesio è mostrato in blu e risiede nello spazio tra le due bolle simmetriche e i filementi esterni ricchi di azoto (in rosso) riscaldato dall’onda d’urto. Crediti: Nasa, Esa, N. Smith (University of Arizona, Tucson), J. Morse (BoldlyGo Institute, New York)

Questa emissione ultravioletta proviene da nubi di magnesio caldo, che gli scienziati hanno ora individuato all’interno di cavità della nebulosa che dovevano teoricamente essere vuote. In parole semplici, si tratta di gas fortemente accelerato che sembra essersi liberato dalla stella prima dell’esplosione vera e propria: un ulteriore mistero sui processi fisici sottostanti, da risolvere con future osservazioni.

Un’altra caratteristica notevole dell’immagine è rappresentata dalle striature visibili nella regione bluastra al di fuori dalla bolla inferiore sinistra. Queste striature appaiono un po’ come raggi di luce che filtrano tra le nuvole, ma il meccanismo che le produce – spiegano i ricercatori – è ben diverso.

Le cause della cosiddetta grande eruzione di Eta Carinae rimangono oggetto di speculazione e di dibattito. Una recente teoria suggerisce che Eta Carinae abbia iniziato la sua carriera come sistema triplo, e l’espulsione di massa di 170 anni fa  sia stato attivato quando la stella primaria – un’elefantiaca supergigante blu –  ha violentemente inglobato una delle sue compagne, lanciando nello spazio una quantità di detriti equivalente a dieci volte la massa del Sole.

Mentre cresce l’incertezza sulle circostanze esatte in cui si è prodotto il recente spettacolo pirotecnico, aumenta invece la consapevolezza di quale sarà l’ultimo show in cui Eta Carinae si esibirà: una supernova, molto più potente della grande eruzione. Un gran finale che potrebbe anche essere già andato in scena lassù, ma che per vedere sulla Terra dovremo attendere almeno 7500 anni, giusto il tempo che la luce impiega per percorrere la distanza che ci separa da questa bellezza cosmica.