I CIELI STELLATI CHE CAMBIARONO IL MONDO

I due cieli dell’allunaggio

Con questo articolo sul primo cielo “a prospettiva multipla” della storia dell’umanità – quello storico del 20 luglio 1969 – riprendiamo su Media Inaf la rubrica mensile a cura di Giangiacomo Gandolfi, Stefano Giovanardi e Gianluca Masi (Planetario e Museo Astronomico di Roma)

     19/07/2019

Il cielo a Roma al momento dell’allunaggio (20:17 UT). Crediti: Giangiacomo Gandolfi/Stellarium. Cliccare per ingrandire

Tra i cieli che hanno mutato il corso della storia spicca per le sue implicazioni nascoste quello del 20 luglio del 1969, il giorno dell’allunaggio. Un giorno – o meglio una notte, per l’Occidente – durante il quale le vicende umane sono state di nuovo attraversate, dopo molto tempo, dal brivido del Mito. Non esistono stime al riguardo, ma c’è tuttavia da scommettere su un numero non proprio esorbitante di osservatori a testa in su, verso il nostro satellite naturale, dal momento che si trattò di un avvenimento mediato dal potente mezzo televisivo in ascesa e segnato da una paradossale invisibilità anche per i più grandi telescopi – il messaggio a reti unificate da un “altrove” celeste che la scienza e la tecnologia rendevano finalmente solido e prosaico, enormemente distante e impossibilmente vicino.

Il contatto del Lem con il suolo lunare avvenne, come noto, a meridione del Mare della Tranquillità, nei pressi del cratere Sabine D, alle 20:17:40 Utc, dopo 30 orbite del modulo Columbia e più di 24 ore di preparazione. In Italia erano – a causa dell’ora legale e del fuso di longitudine orientale – le 22:17 di una serena nottata estiva, e chi avesse sollevato lo sguardo ad ovest avrebbe notato una Luna gibbosa crescente ormai al quinto giorno a 13° di altezza sull’orizzonte, a ovest di Spica, la stella più brillante della Vergine. Di poco più a occidente e nella medesima costellazione, alla stessa altezza sull’orizzonte, una congiunzione di Giove e Urano così stretta che a separare i due pianeti era una distanza di appena un diametro lunare. Per il resto, una configurazione celeste assai poco notevole, con il Triangolo Estivo – formato da Vega, Deneb e Altair – ormai alto a oriente, e a sud Marte che occhieggiava combattivo al fianco di Antares, la rossastra alfa dello Scorpione.

Più avanti nella notte, con un netto anticipo sulla schedula perché gli astronauti rifiutarono di riposare come da programma, Armstrong lasciò la sua storica impronta sul regolite lunare, dopo un’estenuante discesa di qualche minuto lungo la scaletta dell’Eagle. Erano le 04:56 italiane e la Luna nel nostro cielo era ormai da ore sotto l’orizzonte. Lo stesso però non si poteva dire per gli Stati Uniti: a New York sfiorava l’orizzonte ancora in prima serata, al centro di controllo di Houston si trovava a ben 23° di altezza e a Los Angeles splendeva crepuscolare addirittura a 37°. La passeggiata seguita all’allunaggio fu insomma, non sorprendentemente, uno spettacolo perfettamente orchestrato per un pubblico notturno sostanzialmente nordamericano, qualora avesse avuto l’idea di alzare romanticamente gli occhi al candido crescente lunare.

Il cielo sul Mare della Tranquillità durante il Moonwalking (02:56 UT). Crediti: Giangiacomo Gandolfi/Stellarium. Cliccare per ingrandire

Ma il cielo di quel giorno fatidico fu un cielo ben più complesso e rivoluzionario di quello che abbiamo fin qui descritto. Si trattò infatti del primo cielo a prospettiva multipla della storia dell’umanità, quando per la prima volta alla quiete sera estiva con falce lunare osservata dalla Terra si aggiunse lo sguardo di due umani dell’equipaggio dell’Apollo, a 385.536 km di distanza dal nostro pianeta, su un firmamento differente e alieno, estremamente simile al nostro ma caratterizzato da un dettaglio discordante non propriamente secondario: la presenza del pianeta azzurro sul palcoscenico degli astri.

Già, perché dal Mare della Tranquillità in quella notte tra il 20 e il 21 luglio la visione doveva essere impressionante: il Sole splendeva tra le stelle del Cancro a poca distanza da Castore e Polluce, ad appena 14° sull’orizzonte lunare (e questo spiega le lunghe ombre fotografate da Armstrong ed Aldrin) ed era possibile ammirare gli astri dell’inverno senza alcuna difficoltà vista la mancanza di atmosfera, da Sirio a Procione, da Rigel e Bellatrix a Capella. Venere si stagliava luminosa tra le corna del Toro, a non molta distanza da Aldebaran, Saturno brillava giallognolo tra l’Ariete e la Balena e la stella polare splendeva senza un tremito, bassissima a nord in un panorama eminentemente equatoriale. Ma stelle e pianeti sulla Luna sono troppo lontani per apparire spostati nel cielo, in posizioni differenti da quelle terrestri. Troppo distanti per mostrare una parallasse apprezzabile, come direbbe più tecnicamente un astronomo. Su nei Pesci invece, a una sessantina di gradi, ruotava lentissimo un disco azzurro e bianco di circa 2° di diametro illuminato per due terzi – oggetto inedito e scomodo da osservare ad una tale altezza, ma irresistibilmente affascinante per quei goffi osservatori imprigionati da caschi imponenti. A strizzare bene gli occhi nel riverbero lunare vi si sarebbe certamente distinto un lembo d’Australia nella distesa punteggiata di nuvole dell’Oceano Pacifico, quella Australia che con l’antenna del radiotelescopio di Parkes contribuiva in quei convulsi minuti a rimbalzare in tutto il mondo le immagini a più alta risoluzione disponibili della promenade. Indubbiamente, casa. La nostra culla cosmica. La Terra.

Le foto AS11-40-5923 e AS11-44-6564 della Missione Apollo 11. Cliccare per ingrandire

L’uomo sognava da secoli questo sguardo decentrato, da quando Luciano di Samosata immaginava un pozzo e uno specchio lunare per spiare le vicende del nostro pianeta (in Una Storia Vera, del II secolo) e Keplero costruiva un’astronomia e una sociologia selenite sui ritmi della Terra osservata dalla Luna (nel Somnium, del 1609). Ora quella visione prendeva corpo, lasciando una traccia profondissima nell’immaginario umano. L’impatto dello sguardo esterno delle missioni Apollo sul nostro “pale blue dot”, come lo chiamava Sagan, trascende infatti l’ormai celebre passeggiata dell’allunaggio e gli scatti di quella missione: dall’iconico Earthrise dell’Apollo 8, alla vigilia del Natale 1968, e dall’emozionante Blue Marble dell’Apollo 17 scattata nel dicembre 1972, ci sono pochi dubbi che nasca una nuova sensibilità ambientalista ed ecologista, una autocoscienza di livello globale che ispira movimenti politici e ipotesi parascientifiche come il modello Gaia di Lovelock.

Anche la missione del luglio ’69 non si sottrae al richiamo del pianeta madre, e troviamo nell’archivio fotografico i significativi scatti AS11-40-5923 e AS11-44-6564 colti rispettivamente al suolo ai piedi del Lem e in volo dal Columbia, ritratti di un mondo azzurro rimasto alle spalle carichi di pathos e senso di appartenenza. Cercare nel nero profondo del cielo lunare quel piccolo disco colorato è stato in effetti un imperativo ricorrente per tutti gli equipaggi Apollo, che si trovassero in viaggio, lungo l’orbita o sul suolo lunare. Un imperativo dal sapore profondamente spirituale a quanto pare, come testimoniato in particolare da David Scott, moonwalker della missione 15, in un suo scritto autobiografico in cui ricorda di aver sollevato il braccio verso la Terra nel cielo della luna.

«Alzandolo lentamente finché il mio rigido pollice avvolto dal guanto non si levò in alto, mi resi conto che il dito poteva escludere interamente il nostro pianeta dalla vista», racconta commosso, «un piccolo gesto e la Terra sarebbe scomparsa». Un piccolo gesto, tra l’altro, in grado di cancellare la differenza tra i due memorabili cieli dell’allunaggio e il nostro nuovo modo di percepire il pianeta azzurro e il suo fedele satellite.


Questo articolo fa parte della nostra rubrica mensile “I cieli stellati che cambiarono il mondo”, a cura di Giangiacomo Gandolfi, Stefano Giovanardi e Gianluca Masi (Planetario e Museo Astronomico di Roma). Qui l’elenco di tutti gli articoli della rubrica »

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