Il legame tra stelle e salute va molto indietro nel tempo, ma per secoli è rimasto perlopiù confinato all’astrologia – quand’ancora non era netta com’è oggi la distinzione fra scienza e folclore, e persino a uno come Galileo poteva capitare di ritrovarsi a insegnare ai suoi studenti i rudimenti dell’astrologia medica. Man mano che sia l’astronomia che la medicina si scrollano di dosso le credenze popolari a favore del rigore scientifico, però, pur cambiando radicalmente forma, il collegamento fra le due discipline non s’esaurisce, tutt’altro: negli ultimi decenni si è fatto più solido e concreto che mai. Al punto che gli astronomi hanno gioco facile – quando vien chiesto loro a che cosa possa mai servire studiare l’universo – portare esempi di ricadute d’impiego quotidiano in ambito medico, principalmente diagnostico. Esempi e storie che presenteranno questa sera – al pubblico delle Notti d’estate ad Arcetri – due scienziati impegnati, appunto, in sanità e in astronomia: Simone Busoni e Guido Risaliti.
«Vi posso fare due esempi fra tanti», anticipa a Media Inaf Simone Busoni, fisico sanitario e dirigente del Servizio sanitario nazionale all’ospedale di Careggi, con un passato come ricercatore nel campo della strumentazione al Cern di Ginevra e all’Inaf di Arcetri. «Il primo riguarda un’applicazione consolidata da mezzo secolo, basata sulla scoperta dell’antimateria, e in particolare del positrone, rivelato per la prima volta nei raggi cosmici nel 1932. I positroni vengono utilizzati quotidianamente nei nostri ospedali per le indagini Pet, con i fisici sanitari costantemente coinvolti insieme ai medici nel garantire la qualità delle immagini, l’ottimizzazione della dose assorbita dai pazienti e la radioprotezione degli operatori».
«Come recente tecnologia di derivazione astrofisica impiegata in campo sanitario», continua Busoni, «mi piace citare l’ottica adattiva, che massimizza le prestazioni dei telescopi ottici e che vede l’Inaf primo attore a livello mondiale. Le ottiche adattive sono usate anche per ricerca, clinica e preclinica, e per diagnosi in vivo in campo oftalmoscopico. Evidenza ulteriore che la cultura scientifica, e in particolare fisica, è caratterizzata da un’intrinseca unitarietà, non sempre resa evidente dalla pluralità dei suoi campi di applicazione. E da qui nascono inattesi punti di contatto tra l’astrofisica e la fisica applicata alla medicina».
«In astrofisica», aggiunge Guido Risaliti, professore al Dipartimento di fisica e astronomia dell’Università di Firenze e associato all’Inaf di Arcetri, «le immagini con la migliore risoluzione spaziale si ottengono in banda radio, grazie all’uso simultaneo di più telescopi situati a distanze di migliaia di chilometri gli uni dagli altri. Un recente esempio è la prima “fotografia” di un buco nero nella galassia M87, che ha una dimensione angolare pari all’incirca a quella di una pallina da tennis sulla superficie della Luna. Per combinare le informazioni fornite dai singoli telescopi e produrre l’immagine finale si utilizza una complessa tecnica, detta “sintesi di apertura”, sviluppata negli anni ‘50 e ‘60 (per cui è stato assegnato il Premio Nobel per la Fisica nel 1974, a Martin Ryle). Esattamente le stesse tecniche sono state nei decenni successivi applicate alla ricostruzione delle immagini nella risonanza magnetica e nelle Tac. Quindi uno dei maggiori successi dell’astronomia osservativa degli ultimi decenni ha avuto, come inattesa e importante applicazione, lo sviluppo dei più avanzati metodi di analisi applicati ogni anno a milioni di pazienti».