È la sera della vigilia di Natale, il 24 dicembre 2018. Il telescopio per alte energie Xmm-Newton dell’Esa è al lavoro come sempre – o, più esattamente, come da 20 anni a questa parte, essendo stato lanciato nel dicembre 1999. Sta osservando, in direzione della costellazione dello Scultore, la sorgente Gsn 069: una galassia a 250 milioni di anni luce da noi che ospita, nel suo cuore, un buco nero da circa 400mila volte la massa del Sole – dunque piuttosto piccolo per gli standard dei buchi neri supermassicci. Piccolo ma stranamente inquieto. I sensori di Xmm-Newton registrano infatti, quella sera, un cambiamento repentino nella sua emissione di energia: un incremento di ben cento volte rispetto al valore consueto. L’emissione in banda X rimane a livello così elevato per circa un’ora, poi scende a livelli normali. Ma dopo nove ore eccola risalire nuovamente. Non è un comportamento normale. Un po’ di tremolio ci sta, l’emissione dei buchi neri supermassicci è in questo senso simile alla luce di una candela. Ma un cambiamento così rapido è una novità.
Novità che, complice il periodo natalizio, viene però recepita dagli scienziati solo qualche giorno dopo. Siamo già nel 2019, al rientro dalle vacanze. Quando l’astrofisico Giovanni Miniutti – alle spalle un dottorato alla Sapienza e oggi ricercatore al Centro de Astrobiología di Madrid, in Spagna – si accorge, analizzando i dati raccolti dal satellite Esa, di trovarsi davanti a un oggetto dal comportamento del tutto inedito.
«Questo buco nero segue un “piano alimentare” che non abbiamo mai visto prima», dice Miniutti, primo autore dell’articolo che riporta oggi su Nature il risultato. «È un comportamento senza precedenti, il suo, al punto che abbiamo dovuto coniare una nuova espressione per descriverlo: eruzioni quasi periodiche a raggi X».
Per essere certi che non si tratti di un evento episodico, Miniutti e il suo team hanno bisogno di nuovi dati, di maggiori osservazioni. Ma occorre agire in fretta, perché la galassia sta scivolando rapidamente dietro al Sole, dove il telescopio spaziale per raggi X non potrà più vederla per quasi quattro mesi. E per agire così in fretta c’è un modo soltanto: fare direttamente appello al direttore di Xmm-Newton, chiedendo di poter usufruire del cosiddetto ‘Ddt” – il Director’s Discretionary Time, tempo di utilizzo del telescopio che il direttore può concedere, appunto, a sua discrezione. La richiesta è approvata, e proprio l’ultimo giorno prima del “blocco solare”, il 16 gennaio, gli specchi cilindrici ricoperti d’oro di Xmm-Newton volgono di nuovo lo sguardo verso lo Scultore. Questa volta l’osservazione dura ben 38 ore: più che sufficienti a confermare l’incredibile periodicità dell’emissione. Conferma rafforzata – qualche settimana più tardi, il giorno di San Valentino – dalle osservazioni di un altro telescopio spaziale per raggi X: l’osservatorio Chandra della Nasa.
Se sulla descrizione del fenomeno, per quanto bizzarro, sembrano esserci dunque ormai pochi dubbi, la spiegazione sul perché avvenga è invece ancora avvolta nelle nebbie. Da un lato, gli scienziati sono concordi nell’affermare che il periodo relativamente breve – nove ore – è dovuto alla massa relativamente ridotta – 400mila masse solari, appunto – del buco nero. E sottolineano come quest’osservazione suggerisca che anche i buchi neri supermassici più grandi – di solito hanno una stazza che va dai milioni ai miliardi di masse solari – possano esibire un comportamento analogo. Solo, con periodi molto più lunghi – mesi, anni – e di conseguenza molto più difficili da intercettare. Ciò su cui invece c’è grande perplessità è il processo fisico che sta dietro a queste ‘Qpe’ (dalle iniziali di quasi-periodic emission): cosa può mai indurre un buco nero come questo al centro di Gsn 069 a brillare a intermittenza, in luce X, come se avesse ogni volta trangugiato l’equivalente in materia di quattro volte la nostra Luna?
«Riteniamo che all’origine dell’emissione di raggi X vi sia una stella che il buco nero ha parzialmente o completamente fatto a pezzi, e che sta lentamente consumando. Ma per quanto riguarda le esplosioni ripetute, al momento abbiamo solo ipotesi», spiega a Media Inaf una delle coautrici dello studio, Margherita Giustini, originaria di Jesi, laurea e dottorato a Bologna e oggi anche lei ricercatrice al Centro de Astrobiología di Madrid. «Una possibilità che stiamo prendendo in considerazione è che si tratti di una vera e propria instabilità del flusso di materia che cade nel questo buco nero, instabilità che ogni nove ore si ripete. Un’altra possibilità è che, quando questa sorgente si è “accesa” – e sappiamo che si è accesa in qualche momento tra gli anni Novanta e il 2010 – si sia “mangiata” una stella senza però consumarla interamente: un residuo di questa stella potrebbe stare ancora orbitando attorno al buco nero, e magari interagendo con un piccolo disco di accrescimento. Ogni volta che questo frammento di stella incontra il disco ecco, allora, che potrebbe generare un’eruzione di raggi X».
Quale che sia la spiegazione, la speranza dei ricercatori è che questa scoperta li potrà aiutare a svelare il cosiddetto “mistero dell’eccesso di raggi X soft”, quelli più blandi, ovvero proprio la componente la cui emissione varia in modo regolare e repentino nel buco nero di Gsn 069. «Vedere questa componente nascere e morire in un’ora, e poter seguire questo fenomeno per lungo tempo, ci permette di studiare in dettaglio come si forma e come decade, e dunque comprenderne meglio l’origine fisica», conclude Miniutti, in questi giorni in Italia insieme a Giustini per il congresso X-Ray Astronomy 2019.
Per saperne di più:
- Leggi su Nature l’articolo “Nine-hour X-ray quasi-periodic eruptions from a low-mass black hole galactic nucleus”, di G. Miniutti, R. D. Saxton, M. Giustini, K. D. Alexander, R. P. Fender, I. Heywood, I. Monageng, M. Coriat, A. K. Tzioumis, A. M. Read, C. Knigge, P. Gandhi, M. L. Pretorius e B. Agís-González
Guarda su MediaInaf Tv l’intervista a Giovanni Miniutti e a Margherita Giustini: