Negli ultimi decenni, la scoperta di svariate migliaia di sistemi planetari, ovvero stelle attorno alle quali è stato possibile determinare l’esistenza di uno o più pianeti, ha nauralmente portato gli astrofisici a chiedersi se tali pianeti siano adatti a ospitare la vita – e, soprattutto, se lo facciano. Usando i futuri grandi telescopi – da terra, come l’Extremely Large Telescope, e dallo spazio, come il James Webb Space Telescope – sarà possibile determinare la composizione chimica delle atmosfere dei pianeti più simili al nostro, e quindi cercarvi una biosignature: la “firma” chimica dell’esistenza di una biosfera sviluppata, come la nostra. Tuttavia, si tratta di misure alquanto delicate, che richiederanno lunghi tempi d’osservazione: non sarà quindi possibile compierle per tutti i pianeti promettenti.
Il gruppo di astrobiologia – del quale fanno parte Giovanni Vladilo, Giuseppe Murante, Laura Silva, Michele Maris, Giuliano Taffoni e Stavro Ivanowski – dell’Osservatorio astronomico dell’Inaf di Trieste, in collaborazione con i climatologi Elisa Palazzi e Jost von Hardenberg del Cnr-Isac di Torino e Antonello Provenzale del Cnr Igg di Pisa, ha sviluppato un semplice modello climatologico teorico in grado di determinare la temperatura superficiale di esopianeti rocciosi in funzione dei loro vari parametri astrofisici, planetologici e atmosferici. La temperatura superficiale dipende criticamente dal clima del pianeta: basti pensare che, senza atmosfera e clima, la temperatura media della Terra sarebbe circa di -18 gradi °C, mentre grazie alla loro esistenza si aggira attorno ai 14,5 °C. Ora, considerando che la presenza di acqua allo stato liquido è di fondamentale importanza per la vita come noi la conosciamo, nel primo caso la Terra sarebbe formalmente considerata non abitabile. Lo scopo principale di modelli come quello sviluppato dai ricercatori dell’Inaf e del Cnr è proprio quello di determinare quali pianeti extrasolari abbiano maggiore probabilità di essere abitabili, e dunque siano più interessanti da osservare con i futuri strumenti.
Occorre però tenere presente che, nel corso dell’esistenza del nostro pianeta, si sono verificate fasi climatiche in cui la Terra è stata ricoperta – completamente o quasi – dal ghiaccio. Durante questi periodi, chiamati dagli scienziati fasi snowball (palla di neve), la biosfera sopravvive, quasi interamente ricoperta da una spessa coltre di ghiaccio, sotto forma di organismi unicellulari, senza lasciare tracce rilevabili di sé nell’atmosfera.
In un lavoro in corso di pubblicazione su Monthly Notices of the Royal Accademical Society, il team di astrobiologia dell’Inaf e del Cnr, guidato da Giuseppe Murante, ha utilizzato il modello sviluppato per studiare l’abitabilità e il clima di teorici pianeti molto simili alla Terra, tranne che per alcuni parametri orbitali (eccentricità e semiasse maggiore dell’orbita) e planetologici (pressione atmosferica superficiale e inclinazione dell’asse di rotazione). In pratica, hanno preso la Terra e ne hanno determinato il clima ipotetico alterandone alcune caratteristiche: per esempio, cosa acadrebbe se si trovasse più vicina o più lontana dal Sole? E se la sua orbita fosse molto più eccentrica, o la pressione dell’atmosfera molto più alta, o molto più bassa?
Combinano in vario modo questi parametri, sono state realizzate quasi 100mila simulazioni numeriche. In questo primo lavoro, il gruppo si è focalizzato su un aspetto ben preciso: determinare se, dato un pianeta, il suo clima ammetta un solo “stato” o ne ammetta invece diversi a seconda della sua temperatura superficiale di partenza. Per esempio, un clima temperato come quello terrestre attuale è uno stato climatico, mentre un mondo ghiacciato come una snowball rappresenta uno stato climatico differente.
Ciò equivale a chiedersi: se per qualche motivo la temperatura del pianeta salisse o si abbassasse sensibilmente, di decine di gradi, il clima sarebbe in grado di auto-stabilizzarsi? O otterremmo una condizione del tutto diversa? Il modello, al tempo stesso, ha consentto ai ricercatori del gruppo di quantificare l’abitabilità dei pianeti ipotetici, così come la frazione della loro superficie – in base alle stagioni dell’anno e alle temperature di partenza – che presenterebbe una temperatura compresa tra 0 e 50 gradi °C. D’altronde, anche la Terra non è tutta abitabile: per esempio, le regioni interne di alcuni deserti possono essere, in determinate stagioni, troppo calde o troppo fredde, e la zona interna dell’Antartide è troppo fredda per l’intera durtata dell’anno.
Il risultato ottenuto dal team è stato la determinazione (nell’ambito di validità del modello) della percentuale di casi in cui il clima ammette un solo stato – solo temperato, o solo congelato – o entrambi gli stati. In modo non del tutto atteso, è emerso che i pianeti teorici con maggiore abitabilità sono anche quelli che ammettono due stati climatici – vale a dire, anche quello congelato.
Si tratta di una correlazione nuova, per questo settore, e le sue implicazioni sono ancora tutte da investigare. Ma già da ora il gruppo di scienziati è in grado di applicare il modello a esopianeti “veri” – quelli effettivamente osservati – e di determinare quali siano i più indicati per cercare nella loro atmosfera le firme della vita. Ed è altresì in grado di affermare che, se tali firme non si trovassero, non vorrebbe necessariamente dire che la vita non c’è: potrebbe trovarsi ibernata sotto una spessa crosta di ghiaccio.
Per saperne di più:
- Leggi il preprint dell’articolo in uscita su Monthly Notices of the Royal Accademical Society “Climate bistability of Earth-like exoplanets“, di Murante G., Provenzale A., Vladilo G., Taffoni G., Silva L., Palazzi E., Hardenberg J., Maris M., Londero E., Knapic C. e Zorba S.