A darne la notizia con un tweet è stato l’amministratore della Nasa Jim Bridenstine, seguito dal retweet del Nasa Langley laboratory, il laboratorio per il quale ha lavorato per oltre 30 anni: la matematica Katherine Johnson si è spenta all’età di 101 anni.
Ce la ricordiamo tutti ne “Il diritto di contare”, il film – tratto dal libro Hidden Figures, “Figure nascoste” – dove la protagonista Taraji P. Henson ha interpretato la straordinaria vita piena di successi pionieristici della matematica e scienziata afroamericana. Primo fra tutti quello di essere uno dei tre studenti neri, nonché l’unica donna, selezionati per frequentare la scuola di specializzazione in Matematica della West Virginia University nell’America razzista e sessista degli anni in cui è vissuta.
Nata nel 1918 a White Sulphur Springs, nel West Virginia, in America, dopo aver frequentato il liceo in un campus per soli neri del suo paese, a diciotto anni si iscrive al college, dove si laurea in matematica con il massimo dei voti nel 1937. Due anni dopo, nel 1939, dopo una sentenza della Corte Suprema dello stato del Missouri, viene ammessa a frequentare la scuola specialistica in matematica. Corso che tuttavia non segnerà la brillante carriera della scienziata. Lascerà infatti la scuola per dedicarsi alla famiglia, consapevole però di rimettersi in gioco non appena i tre figli sarebbero diventati più grandi. E così fece. Tornò dapprima ad insegnare matematica come aveva fatto subito dopo la laurea. Poi, nel 1952, la svolta che le cambiò la vita. Viene a sapere di posizioni aperte nella sezione per soli neri della West area Computing, presso il laboratorio Langley del National Advisory Committee for Aeronautics (Naca), l’agenzia governativa che da lì a poco sarebbe diventata la National Aeronautics and Space Administration, Ente Nazionale per le attività Spaziali e Aeronautiche“, in italiano, ovvero la Nasa. Assunta, iniziò a lavorare in quello che è oggi il Langley Research Center della NASA nell’estate del 1953. A sole due settimane dal suo incarico, fu assegnata al Maneuver Loads Branch della divisione Flight Research, dove lavorò per quattro anni a un programma di ricerca per l’attenuazione degli effetti delle raffiche di vento sugli aerei. Nonostante la iniziale discriminazione razziale e di genere sul posto di lavoro, grazie alla sua tenacia, riesce a farsi strada e convincere i suoi colleghi del suo valore.
Nel 1957, nello stesso anno del lancio di Sputnik – il satellite artificiale Russo che aprì la corsa allo spazio – contribuì con i suoi calcoli alla stesura del documento Note sulla tecnologia spaziale, una raccolta di lectures di ingegneri che hanno costituito il nucleo dello Space Task Group: la prima incursione ufficiale dell’America nei voli spaziali.
Nel 1960, partecipa alla realizzazione e firma il documento “Determination of Azimuth Angle at Burnout for Placing a Satellite Over a Selected Earth Position”, un rapporto che delinea le equazioni che descrivono un volo spaziale orbitale in cui è specificata la posizione di atterraggio del veicolo spaziale. Per la prima volta una donna della divisione di ricerca sul volo riceveva credito come autrice di un rapporto di ricerca.
Ma fu il 1961 che segnò la carriera della scienziata. È grazie alla sua analisi della traiettoria per la missione Freedom 7 che Alan Shepard poté infatti divenire il primo americano e il secondo uomo nella storia ad effettuare un volo spaziale, seguendo di pochi mesi il sovietico Jurij Gagarin.
Anche nel tentativo di eguagliare la missione sovietica, effettuato nel 1962 con la missione orbitale Friendship 7 di John Glenn, la scienziata fu chiamata in causa. Un lavoro per il quale sarebbe entrata di diritto nella storia. La complessità del volo orbitale richiese la costruzione di una rete di comunicazioni mondiale che doveva collegare stazioni di monitoraggio in tutto il mondo ai computer Ibm a Washington, Cape Canaveral e Bermuda. Computer programmati con le equazioni orbitali che avrebbero dovuto controllare la traiettoria della capsula, dal decollo all’atterraggio. Ma gli astronauti erano diffidenti nell’affidare le loro vite a macchine calcolatrici elettroniche, inclini, a quei tempi, a singhiozzi e blackout. Come parte della checklist di pre-volo, un elenco di attività che devono essere eseguite dal personale di volo prima del decollo, Glenn chiese quindi agli ingegneri che quella donna, nera, verificasse i calcoli attraverso le stesse equazioni che erano state programmate nel computer. «Se lei dice che vanno bene», ricordava di Glenn la stessa Katherine Johnson «allora sono pronto per partire». La missione ebbe il successo che tutti conosciamo, segnando una svolta nella competizione tra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica nella conquista dello spazio.
Ma non è finita. Erano sempre suoi i calcoli che permettendo la sincronizzazione del modulo lunare con il modulo di comando e servizio del Progetto Apollo hanno portato l’uomo sulla Luna. Ma il suo più importante contributo è forse un altro, ‘incalcolabile’, che come esempio di vita ha lasciato a tutti: la necessità di uguaglianza, la passione e la tenacia con cui possiamo superare i limiti e raggiungere obiettivi prima impensabili.
Si ritirò nel 1986, dopo 33 anni di servizio. Medaglia presidenziale della libertà, il più alto onore civile che un americano possa ricevere, le sono stati dedicati il Computational Research Facility a Hampton, e l’Independent Verification and Validation (IV&V) Facility a Fairmont, in Virginia. La ricordiamo con le stesse parole con cui la Nasa la celebra nel suo tweet: «Stasera, conta le stelle e ricorda una pioniera».