Nella corsa alla Luna le donne sono state le grandi assenti. Se guardiamo le foto di gruppo degli astronauti, oppure quelle della stanza di controllo, dove sedevano tutti i tecnici responsabili per la gestione delle missioni, non vediamo nemmeno l’ombra di una donna. Eppure la Nasa impiegava decine di matematiche che calcolavano a mano le traiettorie dei razzi e delle sonde. Una di questi calcolatori con la gonna era Katherine Johnson, mancata pochi giorni fa, alla rispettabile età di 101 anni. Abbiamo visto la sua storia nel film Il diritto di contare, strana traduzione del titolo americano Hidden Figures, figure nascoste, proprio a indicare la non visibilità del lavoro dei calcolatori che pure svolgevano un compito importante e delicato. A lei si è rivolto John Glenn che voleva controllare che i calcoli per mandarlo in orbita e riportarlo a casa fossero corretti. A Glenn non importava che Katherine fosse una donna e neppure che fosse colorata, come si diceva allora. Nessuno era più bravo e più veloce di lei a fare i conti.
Per fortuna i tempi sono cambiati e adesso la Nasa ha deciso che il ritorno alla Luna avrà una importante componente femminile, a cominciare dal nome scelto per il programma, che si chiamerà Artemis, la sorella gemella di Apollo, dea della caccia, ma anche identificata con la Luna crescente. L’amministratore della Nasa ha promesso che il programma Artemis porterà alla Luna la prima donna americana, sperabilmente entro il 2024. L’attenzione alla componente femminile è suffragata dalle selezioni delle ultime classi di nuovi astronauti, dove c’è stato un evidente sforzo di pareggiare i conti.
Se guardiamo le proporzioni uomini-donne nelle nuove leve del corpo degli astronauti della Nasa negli ultimi 20 anni, vediamo che la componente femminile è andata via via aumentando. Si è passati da un conteggio uomini-donne di 14-3 nel 2000 e 7-2 nel 2004, allo storico 4-4 del 2014, il primo esempio di parità di genere. L’ultima classe, chiamata delle Tartarughe, presentata alla stampa nel gennaio di quest’anno, si compone di 13 astronauti: 6 donne e 7 uomini: sono loro la generazione Artemis.
Per arrivare alla Luna, però, le donne astronaute si troveranno in un ambiente realizzato pensando al corpo e alle proporzioni dei loro colleghi maschi. Infatti, le capsule dove dovranno viaggiare, gli attrezzi che dovranno utilizzare, le tute che dovranno indossare sono state progettate per essere utilizzate da uomini. Per le astronaute, i problemi iniziano dalla disponibilità di taglie adeguate.
Per fare attività extraveicolare, fuori dalla stazione spaziale oppure sulla superficie della Luna, bisogna indossare una complicata tuta multistrato capace di mantenere una pressione adeguata per permettere la sopravvivenza dell’astronauta e con un sistema di tubicini dove scorre acqua, per mantenere costante la temperatura del corpo ed evitare che si surriscaldi quando è al sole o che geli quando è in ombra. Ovviamente, per svolgere le sue funzioni, una tuta deve essere delle dimensioni giuste, non troppo grande né troppo piccola. Idealmente ogni astronauta dovrebbe averne una “su misura”. Peccato che ogni tuta sia una piccola astronave portatile il cui prezzo si aggira intorno alla ventina di milioni di dollari. È quindi comprensibile che la Nasa non abbia a disposizione tutta la gamma di taglie, diciamo dalla XS alla XL. Considerando la corporatura media dei suoi astronauti (per la maggior parte maschietti), si era orientata su tute M e L, ma ha poi dovuto aggiungere, a furor di popolo (maschile), le XL. Questo significa che il guardaroba a disposizione degli astronauti è limitato e non tutte le taglie sono disponibili.
Ne sanno qualcosa Anne C. McClain e Christina H. Koch che, nell’aprile scorso, sarebbero dovute uscire per la prima passeggiata spaziale tutta al femminile. La Nasa, che voleva sottolineare la sua attenzione alla componente femminile, aveva dato un grande risalto all’evento, salvo poi dover fare marcia indietro perché entrambe le astronaute vestivano la taglia media e nel guardaroba della Stazione spaziale internazionale c’era una sola tuta della taglia giusta. La cosa ha generato grande ilarità e qualche utente della rete ha insinuato che Nasa significasse No Available Spacesuit Accessories. La lezione è stata imparata: il guardaroba della Iss è stato rifornito di una seconda tuta media e la passeggiata tutta al femminile ha avuto luogo in ottobre 2019.
Bisogna augurarsi che nel progettare il modulo lunare che porterà la prima donna sulla Luna si terrà conto dalle proporzioni del corpo femminile che sono diverse dal modello maschile sul quale è stato pensato il progetto Apollo. La scala da scendere prima di toccare il suolo lunare, per esempio, andrà costruita pensando anche alle astronaute, in generale un po’ più piccole dei colleghi maschi.
Una volta portata una donna sulla Luna, forse sarebbe il caso di ripensare alla toponomastica lunare. Dei 1600 crateri lunari ai quali è stato attribuito un nome, solo 30 sono al femminile. È una disparità che ha radici nella prima nomenclatura lunare, quando il gesuita Giovanni Riccioli introdusse la pratica di dare ai crateri lunari nomi di noti scienziati. Era il 1651 e Riccioli utilizzò nomi di scienziati antichi e moderni, lui compreso. Dei 147 crateri “battezzati”, solo due erano dedicati a signore. Santa Caterina di Alessandria e Ipazia, filosofa, matematica e astronoma, sempre ad Alessandria. Con il miglioramento degli strumenti il numero di crateri e montagne ai quali dare un nome crebbe nel tempo, ma le donne lunari sono rimaste poche.
La prima donna vivente ad avere un cratere sulla Luna è stata Valentina Tereshkova. A lei si è unita Marilyn Lovell, moglie di Jim Lovell, membro dell’equipaggio di Apollo 8, che pensò di dedicarle un monte triangolare, facilmente riconoscibile, che avrebbe segnato il momento dell’accensione dei retrorazzi durante la discesa dell’Apollo 11. Il monte Marilyn è entrato nella storia.