La foto l’abbiamo vista tutti. E anche se ormai è passato un anno, ancora ce la ricordiamo: un ciambellone rossastro un po’ sfocato, con al centro un buco. Il buco nero supermassiccio della galassia M87. Così, almeno, è come appare a uno sguardo distratto. Gli astrofisici, che ci hanno dedicato anni a quell’immagine, ci vedono qualcosa di più. E stando a uno studio pubblicato ieri su Science Advances, guidato da Michael Johnson del Center for Astrophysics di Harvard, presto potranno vederci molto di più.
Che cosa? Anzitutto, quel che noi vediamo come un buco loro preferiscono descriverlo come un’ombra. Un’ombra strana. Non l’ombra causata da qualcosa che copre la luce, ma da qualcosa che la luce se la mangia. Immerso in un mare di plasma incandescente, il buco nero centrale di M87, forte della sua massa pari a due milioni di miliardi di volte quella della Terra, trangugia fotoni come una balena il plancton. I fotoni che stanno oltre il confine del suo raggio d’azione riescono a sfuggire, ma la loro esistenza ne rimane comunque segnata. La loro traiettoria, in particolare: non più lineare, ma piegata, curvata, attorcigliata dall’attrazione gravitazionale del buco nero. E più sono passati vicini a quel confine che gli astrofisici chiamano orizzonte degli eventi, più il loro cammino s’è fatto tortuoso. Alcuni hanno compiuto mezzo anello, per poi ritornarsene da dov’erano venuti. Altri un anello intero. Altri ancora due anelli, altri tre, e via a crescere. Anelli di fotoni che si ricalcano, cerchio su cerchio, sino dare forma all’immagine celebre prodotta un anno fa dall’Event Horizon Telescope (Eht).
«L’immagine di un buco nero in realtà contiene una serie nidificata di anelli», spiega Johnson. «Ogni anello ha circa lo stesso diametro del precedente, ma diventa man mano sempre più nitido, perché la sua luce ha orbitato più volte attorno al buco nero prima di raggiungere l’osservatore. L’immagine che ci ha dato per ora Eht ci permette di intravedere appena la piena complessità che potrebbe emergere dall’immagine di un qualsiasi buco nero».
Già solo con l’intravedere di Eht si può comunque intuire che dalle informazioni contenute nei sottoanelli – così li chiamano gli autori dello studio – è possibile risalire alla massa e dello spin del buco nero. In altre parole, studiandone gli anelli di luce si può tentare di ottenere misure dei parametri fondamentali d’un buco nero.
E, come sottolineano Johnson e colleghi, non siamo che all’inizio: aumentando la “base” già molto ampia dell’interferometria a base molto grande (Vlbi) usata da Eht per fotografare M87, si potranno studiare gli anelli di fotoni in modo assai più dettagliato. Per esempio, avvalendosi di un telescopio in orbita bassa si arriva a distinguere il sottoanello n=1 (vedi immagine in apertura), mentre per il sottoanello n=2 occorrerà aggiungere a Eht un telescopio posto sulla Luna.
«Ciò che ci ha davvero sorpreso», dice Johnson, «è stato il fatto che mentre i sottoanelli nidificati sono, nelle immagini, quasi impercettibili a occhio nudo (e questo anche con immagini perfette), osservati con più telescopi in modalità interferometrica diventano segnali forti e chiari. Al contrario dell’immagine di un buco nero, che per essere catturata richiede molti telescopi distribuiti, i sottoanelli sono perfetti per essere studiati anche usando solo due telescopi, purché molto distanti tra loro. Aggiungere un telescopio spaziale all’Event Horizon Telescope sarebbe già sufficiente».
Per saperne di più:
- Leggi su Science Advances l’articolo “Universal interferometric signatures of a black hole’s photon ring”, di Michael D. Johnson1, Alexandru Lupsasca, Andrew Strominger, George N. Wong, Shahar Hadar, Daniel Kapec, Ramesh Narayan, Andrew Chael, Charles F. Gammie, Peter Galison, Daniel C. M. Palumbo, Sheperd S. Doeleman, Lindy Blackburn, Maciek Wielgus, Dominic W. Pesce, Joseph R. Farah e James M. Moran
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