Lockdown, un nome che già solo a pronunciarlo mette ansia. Con quella coppia di termini – lock e down – che subito rimanda a ‘blocco’ e ‘depressione’. Uno stato d’isolamento forzato al quale non eravamo preparati. Come affrontarlo, dal punto di vista psicologico? Per esempio, prendendo ispirazione da coloro per i quali, invece, l’isolamento estremo è parte del lavoro di tutti i giorni. Persone che hanno dunque una preparazione adeguata a fronteggiarlo. Come gli astronauti. È ciò che propone il “decalogo per non andare fuori di testa” preparato per i dipendenti dell’Inaf da Debora Penco, psicologa del lavoro, consulente senior di Elidea, esperta di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro, nonché consulente – insieme ai colleghi di Elidea – dell’Istituto nazionale di astrofisica. L’abbiamo intervistata.
Dottoressa, anzitutto: valgono solo per astronauti in missione e astronomi in clausura, i suoi consigli, o possono estendersi a tutti noi, costretti in questi giorni fra le mura domestiche?
«Direi che si rivolgono a chiunque, per lavoro, sia costretto a stare in quelli che definiamo “spazi confinati” – dunque con limitazioni rispetto alla propria libertà di movimento, di comunicazione e d’interazione con gli altri. Ed essendoci chi, per mestiere, come gli astronauti appunto, ha dovuto affinare le proprie competenze per fronteggiare queste limitazioni, possiamo prendiamo spunto da loro, che sono selezionati e formati per vivere in uno spazio confinato. Certo, noi non lo abbiamo scelto».
Già, a noi è caduto tutto addosso all’improvviso, nell’arco di una settimana e a colpi di decreti. Gli astronauti ci arrivano allenati, alle loro missioni. Noi no, non siamo preparati…
«È vero che non siamo allenati a vivere questo tipo di condizioni, ma tutti noi, in quanto esseri umani, abbiamo un insieme di abilità – la resilienza – che ci consente di adattarci alle situazioni più estreme. Tant’è vero che c’è vita anche nei luoghi più remoti della Terra. È proprio la resilienza a permetterci di adattarci anche senza alcun training. Gli ingegneri la conoscono come proprietà dei materiali, ma la resilienza per fortuna è anche una proprietà molto umana: è quella che ci consente di reagire positivamente anche in condizioni molto avverse».
In che modo?
«Ciascuno di noi ha in sé il germe della riuscita, e possiamo emergerne tutti quanti facendo leva su una serie di competenze. È quello che diciamo anche ai ragazzi che stanno frequentando i master postlaurea nei quali, come Elidea, teniamo alcuni corsi: cerchiamo di confortarli ricordando loro che quest’esperienza ci sarà utile. Essendo un’esperienza estrema, ci richiede di mettere a frutto tutte le nostre risorse: la flessibilità mentale, la capacità di gestire le relazioni a distanza, l’adattamento, la creatività, l’umorismo, la capacità di sdrammatizzare… E la capacità di aiutare gli altri, che è un’enorme risorsa. Siamo tutti in questa situazione, se riusciamo a dare una mano a un vicino di casa, è probabile che poi ci sentiamo un poco meglio anche noi».
E se invece non ci riusciamo? Quali sono i segnali che ci dicono che forse potremmo aver bisogno di un supporto psicologico, come suggerisce l’ultimo punto del suo decalogo?
«Un segnale al quale prestare attenzione è l’umore costantemente depresso, cupo, nero. Quando non riusciamo mai a vedere la positività, in niente. Per carità, la situazione che stiamo vivendo è drammatica, ma quello che vedo è che sta tirando fuori il bene che c’è in tante persone. Ogni volta che accendo il telegiornale non riesco a non emozionarmi: ci sono quelli che portano calzoni ripieni all’ospedale, quell’altro che consegna in bicicletta le medicine al vicino anziano… Non riuscire a vedere mai questa positività è un segnale. Un altro è il non riuscire più a gestire le proprie emozioni. Può succedere soprattutto in quella che nel mio articolo chiamo “la terza fase”, quella più difficile, quando siamo in dirittura d’arrivo ma non ce la facciamo più. Ecco allora che fuoriescono le emozioni più forti – grande aggressività o grande depressione. Quando ci accorgiamo di non sapere più come contenere le nostre emozioni, allora forse è il caso di contattare qualcuno».
Ma è possibile trovare qualcuno a cui rivolgersi anche in questo periodo?
«Certo, ci sono moltissimi psicologi che in questi giorni stanno mettendo le loro competenze a disposizione di tutti – una sorta di “solidarietà digitale”. Dunque non è difficile trovare qualcuno che ti ascolti, che ti dia un supporto. Eventualmente anche a titolo gratuito, proprio perché in questo momento molti di noi non lavorano, e può essere difficile dover affrontare un’ulteriore spesa. Ma tornando ai segnali ai quali stare attenti, c’è l’incapacità di gestire le piccole cose, e nell’articolo parlo anche di quelli che per gli astronauti rientrano nella cosiddetta “astenia da volo”: quando si protraggono, per un lungo periodo di tempo, insonnia, irritazione, inappetenza… quando vengono meno le forze, ecco, vuol dire che l’energia necessaria a fronteggiare la situazione sta venendo meno».
Ci sono due situazioni che affiorano tra le righe un po’ in tutto il suo articolo, due opposti estremi, sia per l’astronauta nello spazio che per noi in appartamento: solitudine da una parte, soprattutto per chi è single, e mancanza di privacy dall’altra, in particolare se si vive in tanti in un ambiente piccolo. Come affrontarle?
«Sono due estremi di un continuum, perché l’essere umano oscilla costantemente tra la ricerca di privacy e la ricerca di socialità. Trovare spazi di privacy, anche in un appartamento affollato, è possibile. Può bastare anche solo mettersi le cuffie, o leggere un libro. O ancora, come fanno gli astronauti, tenere un diario personale, che è sempre un toccasana. Dall’altra parte, per evitare l’isolamento – e non avere persone con cui confrontarsi può portare a uno stato non dissimile da quello di deprivazione sensoriale – occorre mantenere un contatto con l’esterno. Per fortuna, come gli astronauti, anche noi abbiamo la possibilità di fare videochiamate. La maggior parte di noi, anche le persone più anziane, sta imparando a usare mezzi come Skype, o la videochiamata di WhatsApp… Mezzi che ti danno un elemento in più, rispetto a una semplice telefonata: l’espressione. Certo, non possono essere un sostituto della relazione umana, mancano tantissimi altri indicatori, ma in questo momento ce li possiamo far bastare».
A proposito di programmi per le videochiamate: qui all’Inaf ci ritroviamo tutti catapultati da un giorno all’altro nel telelavoro, come milioni di italiani. Per molti è un passaggio indolore, per alcuni invece possono esserci rischi in agguato. Sentirsi inutili, o al contrario così indispensabili da non staccare mai, o ancora rimanere tagliati fuori da tutti i piccoli team virtuali che spontaneamente si stanno formando. Gli astronauti vengono caricati di compiti ed esperimenti anche per evitare questi rischi. Noi che possiamo fare?
«Non è facile. Ci siamo ritrovati dall’avviare timidi esperimenti – fino allo scorso gennaio, tutte le organizzazioni hanno compiuto piccoli tentativi di smart working – a lavorare tutti o quasi, da un giorno all’altro, da casa – se il nostro tipo di lavoro lo permette. Così, intanto, abbiamo dimostrato che si può fare. Scuola compresa. Io ho due figlie, una alle medie e una alle superiori, e sto apprezzando moltissimo lo sforzo dei professori per adattarsi a questa nuova realtà. Poi certo, quelli che erano già più attivi prima saranno più attivi anche adesso, ma vedi che lo sforzo è di tutti. Però non è facile, dicevo, perché servono competenze diverse. Chi già ci era abituato, chi è più smanettone, chi è più curioso si adatta più facilmente. Chi invece ha una maggiore resistenza al nuovo è possibile che si trovi in una situazione di paura, perché può trovarsi isolato. E non sto parlando solo di persone anziane: anche gente della mia età, quando propongo la telefonata su Skype, a volte mi dicono “no, no, io Skype non ce l’ho e neanche lo voglio mettere”. Se chiedo perché mi dicono che non vogliono essere sempre connessi».
Già, è un rischio… ricette?
«L’organizzazione aziendale dev’essere chiara. In questo le missioni spaziali sono il massimo esempio al quale possiamo aspirare, con la loro definizione perfetta dei ruoli, dei compiti e degli obiettivi. Ognuno sa quello che deve fare. Ma contemporaneamente sono allenati a gestire l’imprevisto. Pensiamo alla famosa frase del film Apollo 13, “Houston, abbiamo un problema…”. Tornando all’organizzazione, da una parte deve supportare i lavoratori dando loro compiti chiari – e lo vedo anche nei compiti con le mie figlie: proprio perché manca il rapporto diretto, i professori devono scrivere sul registro elettronico in modo chiaro i compiti che devono essere fatti. Dall’altra parte, il lavoratore deve attrezzarsi – con la resilienza di cui parlavamo, un po’ di spirito di adattamento e flessibilità – e non esitare a chiedere aiuto, alzare la mano se una cosa non l’ha capita… Ecco, in questo la comunità virtuale può essere di grande aiuto».
In cima alla lista del suo decalogo c’è la designazione del “comandante della missione”. Chi è il comandante, a casa sua, in questi giorni?
«Lo cambiamo spesso, noi, il ruolo di comandante… Per esempio mia figlia piccola, Elena, mi sta aiutando a cucinare, perché fra lavoro al computer e lavori in casa era per me difficile seguire tutto. L’ho fatto presente, e lei si è messa ad aiutarmi. Di conseguenza succede che a volte diventi lei, il comandante. “Oggi facciamo la frittata”, dice. L’ha deciso lei, e va benissimo così».
Per saperne di più:
- Leggi sul sito istituzionale dell’Inaf l’articolo di Debora Penco “Siamo tutti astronauti, in missione verso la salute pubblica: 10 regole per completare la quarantena con successo”