Molti lettori ricorderanno la storica vicenda di ‘Oumuamua (in sigla 1I/2017 U1), il primo asteroide interstellare scoperto il 18 ottobre 2017 dal telescopio Pan-Starrs 1. ‘Oumuamua venne identificato quando si trovava oltre 30 milioni di km dalla Terra, e la sua natura di corpo interstellare fu denunciata dal fatto che, invece di muoversi su un’orbita ellittica eliocentrica (chiusa su sé stessa) come tutti i corpi del Sistema solare, si muoveva su un’orbita iperbolica (ossia aperta) con un’eccentricità e=1,2: valore mai osservato prima d’allora. Ci furono un paio di cose strane riguardo ‘Oumuamua che attrassero subito l’attenzione degli astronomi. Prima di tutto la curva di luce, ossia la quantità di radiazione solare riflessa verso la Terra. Di solito gli asteroidi del Sistema solare hanno una forma tipica che ricorda un po’ quella di un pallone da rugby e, quando ruotano attorno al proprio asse, mostrano due massimi e due minimi di luminosità a seconda che presentino all’osservatore la faccia con l’area maggiore o minore. Di solito il divario di luminosità fra massimo e minimo (chiamata ampiezza dagli astronomi), non è troppo elevata e dalla misura di questa differenza si può capire – in prima approssimazione – quanto sia allungato l’asteroide.
Nel caso di ‘Oumuamua l’ampiezza di luminosità era davvero elevata, indicazione di un oggetto molto allungato se si ipotizza che la superficie abbia una riflettività (o albedo), uniforme. Un oggetto a forma di “sigaro” insomma, per giunta in uno stato di rotazione caotica con un periodo di 7-8 ore. Le dimensioni stimate per ‘Oumuamua vanno da 100 a 1000 metri per la lunghezza e da 35 a 167 metri per lo spessore, con un rapporto fra l’asse maggiore e quello minore che va da 3 a 6 volte. Una forma molto lontana dai “palloni da rugby” di casa nostra. Purtroppo nessuno possiede immagini della forma di ‘Oumuamua: passò troppo lontano dalla Terra ed era troppo piccolo per poter essere risolto anche con i più grandi telescopi al mondo. L’altro fatto anomalo fu che ‘Oumuamua non mostrava una chioma attorno a sé, anche se era soggetto ad un’accelerazione di tipo non-gravitazionale che si rifletteva in piccoli scarti fra le posizioni osservate e quelle calcolate usando la sola forza di gravità. Forze di questo tipo agiscono comunemente sui nuclei cometari. Due fatti inconsueti sul primo corpo di origine interstellare mai osservato vanno spiegati: si tratta di un oggetto unico ed eccezionale e abbiamo avuto una fortuna sfacciata a incontrarlo, oppure è la norma e nello spazio interstellare i “sigari” abbondano? Il principio copernicano ci porterebbe a preferire la seconda ipotesi. Ma è davvero così? Cercano di spiegare le origini e – insieme – le strane proprietà di ‘Oumuamua i due astronomi Yun Zhang e Douglas Lin in un articolo pubblicato lunedì scorso su Nature Astronomy dal titolo “Tidal fragmentation as the origin of 1I/2017 U1 (‘Oumuamua)“.
Zhang e Lin hanno adottato un fenomeno fisico ben conosciuto – quello dell’interazione mareale di una stella con i corpi solidi che gli orbitano attorno – per spiegare le caratteristiche di ‘Oumuamua. Il fenomeno della marea lo conosciamo tutti qua sulla Terra: la differenza della forza gravitazionale della Luna, che si esercita sugli emisferi opposti della Terra, dà luogo a una deformazione del livello degli oceani con un massimo di altezza che si ripete ogni circa 12 ore. Le maree lunari sono deboli perché la massa del nostro satellite è circa 1/81 di quella terrestre. Immaginate però di portare un pianeta – o un asteroide, oppure una cometa – abbastanza vicino a una stella. Con la sua enorme massa, una stella è in grado di esercitare delle notevoli forze di marea, e se ci si avvicina al di sotto di quello che si chiama il limite di Roche si corre il rischio di venire progressivamente “allungati” e, alla fine, distrutti. Tuttavia – questo hanno dimostrato Zhang e Lin – dopo la forte interazione mareale si possono ottenere una serie di frammenti con forma e proprietà simili a ‘Oumuamua.
Per dimostrarlo, i due astronomi hanno condotto delle simulazioni numeriche usando per l’asteroide progenitore di ‘Oumuamua un oggetto di circa 100 m di diametro con una tipica struttura a “rubble pile” – ossia a blocchi indipendenti, simile a Bennu – dotato però di forza di coesione fra un blocco e l’altro. Al posto del Sole hanno assunto una stella di sequenza principale con una massa e un raggio pari alla metà di quella solare. Perché questa scelta? Perché le stelle più piccole del Sole sono anche più dense della nostra stella, di conseguenza si allarga la zona attorno all’astro dove può avvenire la distruzione mareale. L’asteroide è stato fatto muovere su un’orbita a elevata eccentricità (compatibile con una origine nella nube di Oort interna del sistema planetario) fino ad arrivare a distanze dell’ordine di mezzo milione di km dal centro della stella. Dalle simulazioni si vede come l’asteroide, quando passa sufficientemente vicino alla stella, venga fuso in superficie dal calore della stella e distrutto dalla interazione mareale dando luogo a tutta una serie di corpi molto allungati (anche con un rapporto fra gli assi estremo come 1/10), aventi una crosta solida di silicati e in uno stato di rotazione caotico. Considerato che – per effetto della interazione mareale – anche un corpo che non ruota su sé stesso acquisisce un movimento di rotazione (tanto maggiore quanto la velocità è grande e la distanza del perielio è piccola), ne consegue che una parte dei frammenti possono acquistare sufficiente velocità rispetto alla loro stella da essere espulsi nello spazio interstellare. Peraltro l’aumento di velocità richiesto non è molto alto, perché il corpo progenitore si trovava già su un’orbita a elevata eccentricità. La crosta solida aumenta la forza di coesione del corpo (che può ruotare anche rapidamente su sé stesso senza rompersi) ed è in grado di proteggere gli eventuali elementi volatili rimasti all’interno del “sigaro” che – durante il flyby con un’altra stella – non potranno dare luogo a una chioma cometaria, anche se – filtrando dalla crosta – potranno determinare l’insorgere di deboli forze non-gravitazionali. Come si vede, l’origine di ‘Oumuamua potrebbe essere davvero molto tormentata, ma questo giustificherebbe le sue proprietà inconsuete e il fatto che il primo corpo interstellare mai visto sia così peculiare. In base al meccanismo proposto dagli autori, i candidati più probabili a essere progenitori di ‘Oumuamua sono le comete a lungo periodo e i planetesimi residui su orbite quasi paraboliche, debolmente legati al sistema planetario di origine ma con distanza del perielio molto bassa.
Nei loro scenari di distruzione mareale, Zhang e Lin hanno considerato anche una super-Terra di 11 volte la massa terrestre, sempre su un’orbita molto eccentrica, ossia con e=0,999. Il risultato di questa frammentazione planetaria è che può venire espulso nello spazio interstellare – sotto forma di “sigari” – una frazione fino al 10 per cento della massa del pianeta. Perché una super-Terra dovrebbe muoversi su un’orbita così eccentrica, quando sappiamo che i pianeti del Sistema solare si muovono su orbite ellittiche a bassa eccentricità? Per veri motivi: ad esempio per l’interazione gravitazionale con altri pianeti del suo stesso sistema planetario, oppure perché il pianeta appartiene ad un sistema stellare binario e la sua orbita è stata perturbata dall’altra componente o a causa del flyby con una stella di passaggio. La distruzione mareale di una super-Terra con conseguente produzione di “sigari” interstellari potrebbe avere dei risvolti inaspettati se si considera che il pianeta – prima di trovarsi su un’orbita ellittica di distruzione mareale – poteva trovarsi nella fascia di abitabilità della stella. Di conseguenza, una frazione dei “sigari” scagliati nello spazio interstellare sarebbero candidati a contenere materiale di tipo biologico e costituire dei vettori per la diffusione della vita nella nostra galassia (panspermia). Fantascienza? Forse, ma chissà quali meraviglie potrebbero celarsi sotto la crosta di ‘Oumuamua. Non lo sapremo mai.
Per saperne di più:
- Leggi su Nature Astronomy l’articolo “Tidal fragmentation as the origin of 1I/2017 U1 (‘Oumuamua)”, di Yun Zhang e Douglas N. C. Lin