Il filosofo della scienza Nicholas Rescher una volta scrisse: “Le scoperte scientifiche vengono spesso fatte non sulla base di un piano ben concepito, ma grazie a un puro colpo di fortuna”. Questo fenomeno è così comune che gli è stato addirittura attribuito un nome: serendipità, dal termine inglese serendipity. Per un team di ricercatori del Johns Hopkins Applied Physics Laboratory (Apl) di Laurel, nel Maryland, l’affermazione del filosofo tedesco non potrebbe essere più vera. Quella che è iniziata come un’esercitazione per provare gli strumenti della sonda spaziale Messenger (Mercury Surface, Space Environment, Geochemistry and Ranging) della Nasa, si è trasformata in una saga durata più di 10 anni che ha portato a una scoperta del tutto fortuita e che non c’entra nulla con il pianeta obiettivo della missione, Mercurio. La scoperta riguarda Venere e la sua atmosfera, e ve la racconteremo in questo articolo.
La storia iniziò nel giugno 2007 quando Messenger fece il suo secondo sorvolo di Venere, prima di virare verso Mercurio. All’epoca, il team strumentale colse la palla al balzo per testare gli strumenti e raccogliere dati prima del vero spettacolo, che sarebbe iniziato circa sei mesi dopo. Tra i membri del team c’era David Lawrence, un fisico nucleare dell’Apl. Era l’instrument scientist dello spettrometro a neutroni di Messenger, il sui scopo era quello di rivelare i neutroni liberati nello spazio dai raggi cosmici che si scontrano con le molecole dell’atmosfera o sulla superficie del pianeta. Lawrence cercava di trovare tracce dei neutroni provenienti dagli atomi di idrogeno delle molecole d’acqua che si sospettava essere congelata all’interno dei crateri ai poli di Mercurio. Su Venere, Lawrence voleva solo raccogliere alcuni dati per verificare che lo strumento funzionasse correttamente e questo fu ciò che fece: il controllo andò a buon fine e i dati che lo confermavano vennero presentati come tali.
Ma nel 2010 Lawrence riguardò quelle misure, questa volta insieme a Patrick Peplowski, un altro fisico nucleare dell’Apl. Nonostante 50 anni di invio di missioni robotiche su Venere, tra cui 13 sonde atmosferiche e lander, le incertezze sulla concentrazione di azoto nell’atmosfera di Venere erano ancora molte, in particolare nella fascia tra 50 e 100 chilometri sopra la sua superficie. Questo fatto dava molto da pensare a Peplowski e Lawrence, visto che l’azoto è la seconda molecola più abbondante nell’atmosfera di Venere, dopo l’anidride carbonica.
Lawrence sapeva di un articolo del 1962 che suggeriva come la spettroscopia di neutroni potesse aiutare a determinare la concentrazione di azoto nell’atmosfera di Venere. L’azoto è piuttosto bravo a eliminare neutroni liberi, a differenza del carbonio e dell’ossigeno, che sono tra i peggiori elementi a farlo. Quindi, su Venere, il numero di neutroni rilevati doveva dipendere dalla quantità di azoto presente in atmosfera. E guarda caso Messenger aveva raccolto proprio le informazioni che sarebbero potute servire per fare questo tipo di controllo.
La coppia di scienziati eseguì allora una simulazione al computer, suddividendo la spessa atmosfera del pianeta (circa 100 chilometri) in bande all’interno delle quali definì la concentrazione di azoto, e modellando realisticamente il numero di neutroni che sarebbero stati rivelati dalla sonda Messenger. Poi confrontò il risultato della simulazione con i dati veri, ottenuti dalla sonda, scoprendo che la corrispondenza migliore la si aveva quando l’azoto atmosferico costituiva il 5 per cento del volume, circa una volta e mezzo quello misurato nella parte bassa dell’atmosfera. Tutti i neutroni sembravano provenire da una regione tra circa 56 e 100 chilometri sopra la superficie – esattamente dove si era riscontrata l’incertezza più grande nella misura. «È stato davvero un colpo di fortuna», ammette Peplowski. Perché sussista tale aumento di azoto ad alta quota rimane un mistero.
La loro scoperta ha sollevato più di un paio di sopracciglia, racconta Peplowski. Non perché la gente non se lo aspettava, bensì perché non si era nemmeno posta il problema di andare a verificarlo. «Molti scienziati sembravano sorpresi che fosse qualcosa che valeva la pena indagare», spiega Peplowski. «L’idea che ci sia una maggiore concentrazione di azoto nell’atmosfera superiore rispetto a quella inferiore non era stata nemmeno presa in considerazione».
Gli autori si sono trovati in quell’impasse mentre cercavano di ottenere finanziamenti per completare lo studio. Al progetto è stato negato il denaro ben tre volte, perché lo studio era considerato dai più un vicolo cieco. I dati di cui avevano bisogno per riuscire a essere più sicuri dei loro risultati arrivarono da Jack Wilson, uno scienziato dell’Apl che aveva appena analizzato gli stessi dati Messenger, nell’ambito di un altro progetto.
Dopo che il team ebbe presentato i risultati preliminari durante una conferenza nel 2016, l’Agenzia spaziale federale russa citò il loro lavoro nella missione Venera-D, dedicata allo studio dell’atmosfera e della superficie di Venere. Attualmente, sono due le proposte di missione in esame per il Discovery Program della Nasa – Davinci+ e Veritas – che includono entrambe i due scienziati Apl nel loro team, e che si propongono di studiare l’atmosfera di Venere in modo più dettagliato.
Tutto è bene quel che finisce bene, si potrebbe dire. Il 20 aprile il team ha infatti pubblicato su Nature Astronomy la notizia che i dati raccolti casualmente da Messenger hanno rivelato un aumento delle concentrazioni di azoto a circa 50 chilometri sopra la superficie di Venere, dimostrando che l’atmosfera del pianeta non è uniforme, come si è sempre ritenuto.
Peplowski e Lawrence sostengono che questa scoperta, che stravolge la comprensione dell’atmosfera di Venere che ha prevalso per decenni, evidenzia la cautela che i ricercatori dovrebbero avere nel trarre conclusioni sui dati atmosferici dei pianeti. Questo soprattutto adesso, visto il crescente interesse per le atmosfere planetarie in altri sistemi solari. «Stiamo ancora imparando cose fondamentali su Venere e la sua atmosfera… ed è il nostro vicino di casa», fa notare Peplowski. «Vale la pena mettere in discussione il fatto che gli scienziati parlino con fiducia delle atmosfere degli esopianeti che si trovano a centinaia o migliaia di anni luce di distanza».
Trarre conclusioni rigorose e convincenti richiede una vasta mole di dati. E questa vicenda ci ha insegnato che arrivare a quelle conclusioni a volte può richiedere un po’ di fortuna o, con una parola, serendipità.
Per saperne di più:
- Leggi su Nature Astronomy l’articolo “Chemically distinct regions of Venus’s atmosphere revealed by measured N2 concentrations” di Patrick N. Peplowski, David J. Lawrence e Jack T. Wilson