DALLA POLVERE ALLA NATIONAL ACADEMY OF SCIENCES

Daniela Calzetti, un’astronoma a redshift zero

Nata a Parma, naturalizzata statunitense, oggi a capo del dipartimento di astronomia della University of Massachusetts Amherst, Daniela Calzetti è appena stata eletta membro della National Academy of Sciences, il più alto riconoscimento alla carriera negli Stati Uniti. Il suo nome è noto nella comunità scientifica grazie all’omonima legge che descrive l’attenuazione della luce delle galassie causata dalla presenza di polveri

     08/05/2020

Daniela Calzetti. Courtesy of UMass Amherst

La polvere, annoso problema quotidiano per ognuno di noi. Per alcuni un problema casalingo, per certi altri un problema allergico, per altri ancora un problema astronomico. Studiosi di galassie vicine e lontane, nei loro uffici affollati di computer e libri impolverati, la polvere proprio non la possono eliminare. La polvere cosmica, s’intende, della nostra e di altre galassie, che si mangia un po’ della luce nel suo percorso che la porta fino a noi.

C’è chi, comunque, nella comunità scientifica, la polvere se l’è fatta amica, e ci ha addirittura costruito su una brillante carriera. Scoprendo una legge che ci dice come la luce di una galassia viene attenuata, nelle diverse regioni dello spettro, dal passaggio forzato attraverso la polvere. Parliamo di Daniela Calzetti, astronoma italiana naturalizzata statunitense, attualmente professore e capo del Dipartimento di astronomia della University of Massachusetts Amherst, ed eletta pochi giorni fa membro della National Academy of Sciences (Nas), la prestigiosa accademia fondata nel 1863 da Abraham Lincoln. La intervistiamo a distanza, nella sua casa in Massachusetts, dove trascorre questo periodo di chiusura delle università americane. «Nascosta come un ratto», come si definisce lei, ci racconta qualcosa di più di questo riconoscimento alla carriera, ma soprattutto di lei.

Parliamo innanzitutto della nomina ricevuta dalla Nas. Come funziona?

«Di preciso, come funziona la nomina non lo so, probabilmente lo scoprirò una volta che farò parte dell’accademia e sarò esposta alle sue procedure, fra un anno e mezzo o due. Quello che è chiaro è che devi essere nominato, e io avevo qualche vago sentore che qualcuno stava facendo venire a galla il mio nome nell’istituzione già alcuni anni fa. Però di nomine ce ne sono tante e non so quale percentuale di queste passi la selezione. Alla nomina segue infatti l’elezione, e infine quella che qui si chiama “cerimonia di induction”, che sancisce l’ingresso ufficiale come membro dell’organismo».

È stata quindi una sorpresa?

«Sì, perché appunto c’era il sentore, ma è possibile essere nominati senza mai venire eletti. È un passaggio nient’affatto scontato. L’elezione è stata una sorpresa, pensavo che un giorno sarebbe potuto accadere ma poteva succedere fra dieci, quindici, o vent’anni, oppure mai. Per ora comunque ho ricevuto solo un invito formale, dovrò sottomettere una lettera di accettazione e fra circa un anno c’è la cerimonia di induction».

Potremmo paragonare la Nas alla nostra Accademia dei Lincei?

«Penso di sì, qui negli Stati Uniti entrare a far parte della Nas come membro viene considerato il riconoscimento più prestigioso per la carriera».

Abbiamo notato che il consiglio della Nas conta una buona percentuale femminile…

«È un movimento che è iniziato circa 8-10 anni fa quello che ha portato a far sì che venissero nominate persone da gruppi diversi. Non ho una statistica sulla frazione di donne nella Nas, ma credo che anche questo aspetto ne abbia beneficiato molto».

Complimenti, quindi, non l’avevo ancora detto. Parliamo un po’ di te e della tua storia.

«Sono nata a Parma, come Riccardo Giovannelli, anche lui astronomo italiano naturalizzato statunitense. Ho studiato e ho preso il dottorato a Roma. Circa a metà del dottorato sono andata per la prima volta negli Stati Uniti, a Baltimora, per lavorare allo Space Telescope Science Institute con una Esa fellowship. Ero partita per star via un anno, un anno e mezzo al massimo fino alla fine del dottorato, ma da cosa nasce cosa e trent’anni dopo mi trovo ancora qua».

Come mai questa decisione?

«All’epoca le prospettive di carriera per gli astronomi in Italia non erano molto ampie. Erano gli anni antecedenti allo European Research Council e a tutto lo sforzo che c’è stato negli anni Novanta e Duemila per espandere la ricerca in Europa. Ogni paese cercava di portare avanti la ricerca in modo individuale, entro i propri confini, e in astronomia non vi erano molte possibilità. Gli italiani tendevano a viaggiare molto, molti continuano a farlo anche oggi, alcuni di essi rientrano e altri no. L’idea di spostarsi negli Stati Uniti per continuare nel mondo della ricerca è stata una possibilità per me attraente e si è concretizzata dapprima con l’Esa fellowship, che mi ha portato alla fine del dottorato; poi ho avuto una borsa post-dottorato di tre anni pagata sui fondi personali di Dr. Anne L. Kinney, sempre allo Space Telescope Science Institute. Nello stesso istituto ho poi vinto una posizione come tenure-track astronomer, diventata poi una posizione permanente nel 2002. Infine nel 2007 mi sono spostata qui ad Amherst».

Rispetto al quadro che hai descritto al momento della tua partenza verso gli Stati Uniti, come vedi la situazione odierna in Italia?

«Rispetto a qualche anno fa, la situazione mi sembra estremamente migliorata: vedo molte persone che vengono promosse sulla base delle loro capacità. All’epoca in cui sono andata via io, il concetto di promozione per baronia era molto diffuso. Non andrò a sindacare sul fatto che ora la situazione sia perfetta, nulla è perfetto, ma riscontro che molte persone che occupano posizioni di prestigio sono persone capaci e di merito. Persone cioè che hanno dimostrato prima di poter dare dei contributi rilevanti alla scienza e poi li hanno tradotti in contributi alla professione. Ricercatori estremamente preparati, esperti e realizzati prima di essere direttori di ricerca o direttori nella propria istituzione».

Non hai mai pensato di voler tornare in Italia?

«Sai che c’è, le mie scelte non hanno mai voluto rispondere alla domanda “dove voglio andare”, mi sono piuttosto lasciata guidare dalla direzione che mi indicava la ricerca, cercando risposta alla domanda “dov’è che posso far ricerca meglio”. Credo di non essermi mai posta direttamente il problema se volessi tornare in Italia».

Un approccio molto dedicato e coraggioso…

«Sai, ho avuto anche la fortuna che mio marito Mauro e io siamo sempre riusciti a stare insieme e questo ha pesato molto sulle nostre scelte. La scelta di venire ad Amherst ne è un esempio, perchè quando io e Mauro ci siamo messi sul mercato avevamo più di un’offerta. La nostra decisione è stata dettata dal fatto che c’erano due posizioni molto buone per entrambi, e siamo riusciti ad adattarci. Pensa che quando mi hanno chiesto di fare la prima intervista qui non sapevo nemmeno dove si trovasse Amherst, ho dovuto cercarla sulla mappa perché non l’avevo mai sentita».

Passiamo a questioni più scientifiche. Il tuo nome, sin da studente, l’ho incontrato in relazione alla famosa legge di attenuazione che lo porta. E come me, direi molte persone nella comunità scientifica. Quale pensi sia la forza di questo lavoro ancora così attuale?

«Questa moda della “legge” di estinzione che ha portato a questo lavoro che tu hai citato ha compiuto vent’anni sei anni fa. All’epoca avevo uno studente che stava cercando una tesi di dottorato e gli dissi “questa relazione ha vent’anni, magari potremmo cercare di migliorarla”. Ci abbiamo provato, e non direi che ci siamo riusciti molto bene, nel senso che non siamo riusciti a capire se esistano maniere specifiche per costruire una relazione generale che si applichi, ad esempio, alle galassie più lontane. Direi però che, a livello generale, la capacità di quella curva di attenuazione è che usa le proprietà medie della polvere, che significa che troverai sempre delle deviazioni ma esse non saranno mai drammatiche, per lo meno nella media. Esistono risultati nella letteratura che cercano di descrivere diversi andamenti, per esempio con la metallicità, ma questi hanno problemi a spiegare la fisica del processo. È una “legge” che si può usare in molti contesti e questo ha aiutato anche la sua sopravvivenza. Inoltre, è difficile trovare un’alternativa, perché essa usa il teorema del limite centrale come concezione. Ha la comodità di essere un’espressione semplice che si può anche infilare nei modelli per cercare di riprodurre gli andamenti osservati».

Ti sei sempre occupata di questa tematica di ricerca?

«Negli anni non ho lavorato solo su questo, mi sono interessata anche di formazione stellare, in particolare studio il tasso di formazione stellare delle galassie. In realtà negli ultimi tempi sto tornando al mio vecchio amore, nel senso che sto trovando degli esempi che mi potrebbero aiutare a espandere un pochino il concetto di attenuazione, e che mi hanno riportata quindi a lavorare di nuovo in questo ambito. Si tratta però di un singolo progetto che non richiede un grosso investimento di tempo, perché la mia principale attività di ricerca si focalizza sulla relazione fra la formazione stellare e i processi di formazione ed evoluzione delle galassie».

Quindi potremmo aspettarci una riedizione della tua legge?

«Non lo so, è troppo presto per dirlo, siamo ancora all’inizio».

I tuoi lavori si basano sulle osservazioni: galassie vicine o lontane?

«Sono sempre stata un’astronoma osservativa. Redshift? Zero. Io sono una che non si è mai mossa da casa. Più che altro perché mi piace vedere il dettaglio di quel che succede. La differenza sostanziale è che ad alto redshift occorrono campioni numerosi per studiare il comportamento medio della popolazione, a basso redshift si vede invece il dettaglio. A me piace questo approccio, mi piace prendere una galassia, sezionarla e capire il contributo di ogni pezzettino alla visione globale, e come questa poi aiuti a interpretare quello che vediamo nell’universo lontano. Sono in qualche modo due aspetti complementari della ricerca».