“Ma quello che supera ogni possibile meraviglia è stato aver scoperto quattro astri erranti, da nessuno mai visti precedentemente, che come Venere e Mercurio attorno al Sole, ruotano attorno ad un astro tra i più grandi conosciuti, ora precedendolo, ora inseguendolo, senza mai allontanarsene più di una breve distanza ben delimitata …” – Sidereus Nuncius, Galileo.
Cominciava così, nel 1610, l’osservazione e l’esplorazione delle quattro lune di Giove, i satelliti galileiani – o medicei. Sono stati battezzati con nomi strettamente legati alla mitologia di Giove, il dio dell’Olimpo al quale è dedicato il pianeta più grande del sistema solare, e si chiamano, in ordine di distanza dal loro pianeta centrale: Io, Europa, Ganimede e Callisto. Con immutata meraviglia e stupore, sentimenti che da sempre accompagnano lo scienziato nelle sue scoperte – e prima ancora, l’uomo al cospetto della natura – lo studio di questi corpi minori è proseguito rivelandone moti, massa, dimensioni, caratteristiche geologiche e nuovi elementi per formulare ipotesi evolutive.
Avete capito bene. Quattrocento anni dopo, per quel che riguarda la formazione e l’evoluzione dei satelliti galileiani, siamo ancora alle ipotesi. O forse, grazie a un articolo firmato a due mani e pubblicato il 18 maggio scorso su The Astrophysical Journal, siamo appena giunti al giro di boa.
«Diciamo innanzitutto qual è il problema», dice a Media Inaf il secondo autore dell’articolo, Alessandro Morbidelli, astronomo all’Observatoire de la Côte d’Azur, a Nizza, esperto escursionista e giramondo per passione – e in una sola definizione studioso e appassionato di meraviglie, terrestri e non.
Diciamolo. Qual è?
«Ciascun pianeta gigante in formazione crea un vuoto nel disco protoplanetario – il disco di gas e polveri che si forma attorno alla stella e dal quale originano i pianeti – in cui è immerso, nei pressi della propria orbita. Il gas presente nel disco protoplanetario continua ad arrivare in prossimità del pianeta trovando un canale attraverso i poli del pianeta, mentre le polveri, maggiormente concentrate nel piano mediano, non riescono più ad alimentare il disco circumplanetario. Il problema, quindi, è quello di capire da dove arrivi il materiale per formare i satelliti».
Quale soluzione propone, il vostro modello?
«L’idea è che la polvere arrivi poco a poco con il gas, ma solo la polvere piccola che può stare nelle regioni superficiali del disco protoplanetario. Quando cade nel disco circumplanetario attorno a Giove, si accumula grazie a un bilanciamento di forze. Le polveri ruotano attorno al pianeta più lentamente del gas, perché il gas è sostenuto dalla pressione, e questa differenza di velocità frena le polveri e tende a farle cadere sul pianeta. Allo stesso tempo, però, il disco di gas attorno al pianeta è in espansione, perché alimentato dal gas che cade dalla direzione polare e riparte verso il disco circumstellare una volta giunto al piano mediano. Questa circolazione di gas è propria dei dischi circumplanetari, ed è diversa da quella dei dischi circumstellari».
In che senso?
«A partire dal 2014 si è capito che il disco attorno a un pianeta in formazione è un disco di decrescimento, che si muove verso l’esterno fino a uscire dalla sfera gravitazionale del pianeta – detta sfera di Hill – e rientrare nel disco protoplanetario. Ciò avviene proprio perché il gas viene continuamente rifornito con un meccanismo di alimentazione verticale dalla superficie del disco circumplanetario. Pertanto il disco circumplanetario è in continua espansione, ed è attraversato da un vero e proprio flusso di gas che va dal pianeta verso il margine della sfera di Hill. È una caratteristica propria dei dischi circumplanetari che li differenzia dai dischi di accrescimento – come i dischi protoplanetari, in cui il gas che si trova attorno alla stella si muove verso la stessa e la alimenta».
Abbiamo due forze opposte sul piano del disco circumplanetario, quindi?
«Sì, il gas espandendosi radialmente tende a portare con sé le polveri, che sono quindi sottoposte a una forza di deflusso verso l’esterno opposta alla forza di frenamento che le farebbe cadere nel pianeta. Esiste una condizione di equilibrio stabile fra le due forze, che dipende dalla dimensione delle polveri: polveri con una dimensione caratteristica fanno praticamente surplace sul disco ad una certa distanza dal pianeta. Abbiamo definito questo meccanismo dust trap. Anche se queste polveri, provenendo solo dalle regioni superficiali del disco protoplanetario, arrivano a un ritmo basso, il disco complessivamente si arricchisce di polveri rispetto al gas. A questo punto, si mette in moto un meccanismo di aggregazione dei solidi per gravità mutua, si formano dei planetesimi – che essendo attorno al pianeta chiameremo satellitesimi – e infine questi satellitesimi collidono fra di loro formando degli oggetti più grandi, i satelliti».
E come si possono formare i sistemi di satelliti, come quelli gioviani?
«Una volta che un satellite diventa sufficientemente grande, interagisce gravitazionalmente con il disco circumplanetario, comincia a migrare verso il pianeta allontanandosi dall’anello in cui è concentrata la polvere. Questo previene che i satelliti diventino infinitamente grandi, c’è una sorta di equilibrio naturale: quando il satellite è piccolo migra poco, quando invece diventa sufficientemente grande migra veloce, esce dall’anello di polveri e la sua massa risulta definita. In sequenza si formano quindi vari satelliti, tutti di massa più o meno uguale, proprio come i satelliti galileiani».
Fino a dove migrano i satelliti che si muovono verso il pianeta dal disco di polveri?
«Quando il primo satellite arriva al bordo del disco circumplanetario trova una cavità magnetica – presente attorno a tutti i dischi di oggetti magnetizzati – e si ferma, poi arriva il secondo che si blocca in risonanza col primo, poi il terzo in risonanza col secondo, esattamente come sono disposti Io, Europa e Ganimede. L’ultimo dei quattro è Callisto, che però non è in risonanza con gli altri satelliti, il che fa pensare che abbia migrato molto poco. Nelle nostre simulazioni, esso si forma infatti in modo naturale dai rifiuti».
Dai rifiuti? In che modo?
«A un certo punto il gas circumplanetario va via perché – come il disco protoplanetario – viene fotoevaporato dalla stella. Tutti i solidi che restano – in un disco di polveri chiamato debris disk – riescono a formare un satellite su tempi scala molto più lunghi, dell’ordine di parecchi milioni di anni, che non può migrare a causa dell’assenza di gas. Questo spiegherebbe quindi come mai Callisto non ha raggiunto gli altri tre satelliti in una catena di risonanze, e spiega anche come mai – a differenza degli altri satelliti che presentano nucleo, mantello, crosta – non è differenziato: formandosi molto lentamente, avrebbe accumulato poco calore dall’accrescimento, e non avrebbe più a disposizione una quantità ingente di elementi radioattivi a corto periodo, che riscaldano i pianeti e forzano la differenziazione».
Le teorie proposte finora per spiegare la formazione dei satelliti gioviani, invece, cosa propongono?
«Sono molto diverse. La più accreditata ha sostanzialmente due problemi. Sostiene che il disco circumplanetario sia continuamente alimentato da gas e polveri, non realizzando che in realtà la materia che cade sul disco circumplanetario ha un rapporto polveri su gas bassissimo, poiché le polveri concentrate sul piano mediano non possono entrare nel gap del pianeta. Nel modello, inoltre, la dinamica e il meccanismo di accrescimento sono poco discussi, e si immagina che i satelliti si formino in un continuum temporale contemporaneo alla formazione di Giove, per poi migrare verso di esso. Anche questo non è realistico rispetto alla presenza di cavità magnetiche di cui parlavamo prima. C’è poi un altro modello che propone un meccanismo plausibile per portare materiale solido ai dischi e si basa sul fatto che alcuni planetesimi che si formano nel disco protoplanetario possano avere degli incontri ravvicinati con Giove, e che attraversandone il disco circumplanetario vengano inglobati per frizione, venendo in seguito distrutti e depositando il materiale di cui sono fatti come polvere nel disco. È un’interessante soluzione per spiegare come le polveri arrivino nel disco circumplanetario. Quello che manca a questo modello è il meccanismo di trapping a cui abbiamo pensato noi – e che è veramente la chiave del nostro lavoro – e senza il quale le polveri cadono sul pianeta».
La parte analitica del vostro lavoro, quindi, è un bilanciamento di forze: non propone nuove teorie né impone il verificarsi di particolari condizioni…
«Sì, sono d’accordo, è veramente stata una realizzazione. Il nostro lavoro è stato quello di realizzare che esiste una forza che controbilancia la frizione e crea la dust trap. Nulla di particolarmente complicato, bisogna solo pensarci. Non abbiamo inventato una nuova fisica, bisognava semplicemente mettere insieme gli ingredienti e studiarne le conseguenze».
È un meccanismo efficiente, quello che proponete?
“Sì, se è il meccanismo che ha portato alla formazione dei satelliti, deve essere un meccanismo efficiente. La chiave è proprio questo meccanismo di trapping, che ora vogliamo studiare in vere simulazioni idrodinamiche, dato che il nostro lavoro si basa su stime analitiche. Si tratta di un lavoro preliminare, basato esclusivamente su calcoli analitici, che sono corretti ma per loro stessa natura necessitano di approssimazioni. Le stime analitiche sono belle, eleganti, ma c’è sempre il rischio di aver dimenticato qualcosa, qualche effetto di feedback ad esempio, che se non si mette nelle equazioni si alterano i risultati. La “fase 2” di questo lavoro, che comincerà quest’estate, consisterà nel fare le simulazioni idrodinamiche più realistiche possibili di gas e polveri nello scenario di un pianeta in formazione, per vedere se l’evoluzione del sistema segue il cammino che abbiamo studiato analiticamente o se ci sono dei fenomeni a cui non abbiamo pensato».
Esistono osservazioni a sostegno del vostro modello?
«È interessante notare che attorno al pianeta Pds 70c – Pds 70 è una stella che ha due pianeti osservati direttamente – si è rivelato anche il disco circumplanetario. Più precisamente, l’immagine del disco rivela la fase immediatamente precedente alla formazione dei satelliti. Il disco circumplanetario si vede perché è estremamente ricco di polveri, ed è stato stimato che il rapporto fra le polveri e il gas in questo disco sia da 10 a 100 volte superiore al valore medio del disco protoplanetario. Il meccanismo di accumulazione delle polveri attorno ai pianeti giganti sembra quindi essere osservato. Quello che a me dà speranza è che questo pianeta extrasolare presenta un’accumulazione di un fattore circa 30, un valore compatibile a quanto calcoliamo nel nostro modello».
Si tratta di osservazioni rare?
«Per il momento si conosce solo questo sistema in cui si vede il disco circumstellare, tutti gli altri sistemi noti sono maturi. Possiamo dire che per ora si tratta di un caso unico, ma probabilmente la statistica aumenterà in futuro. C’è da dire, però, che questi dischi ricchi di polveri sono transienti e bisogna coglierli al momento giusto: inizialmente non ci sono abbastanza polveri, poi quando si accumulano abbastanza si formano i satelliti e il disco diventa trasparente agli occhi di Alma, che è sensibile solo alle polveri. Non ci aspettiamo che tutti i dischi circumplanetari che verranno osservati siano ricchi di polveri: per alcuni di essi sarà troppo presto, per altri troppo tardi. Con Pds 70 siamo stati fortunati: su due pianeti, già uno si trova nella fase giusta per noi».
Quali parametri osservativi cercherete di misurare?
«Per quanto riguarda i pianeti extrasolari, il rapporto polveri su gas. Le polveri si misurano bene con Alma, la quantità di gas è più difficile da stimare ma con le simulazioni riusciamo a dare delle buone stime. Per il Sistema solare è più difficile, cercheremo di portare avanti il modello per vedere se esso riesce a spiegare le differenze fisiche dei satelliti di Giove».
Quali differenze?
«Ci sono differenze fisiche notevoli fra i satelliti per quel che riguarda, ad esempio, il rapporto ghiaccio su roccia. Io non ha ghiaccio, Europa ne ha poco, Ganimede circa 50 e 50. Callisto fa storia a sé, per lui spieghiamo già bene il meccanismo di formazione e le differenze nella composizione. Si tratta di un gradiente planetocentrico, che aumenta con la distanza dal pianeta. Se il disco circumplanetario avesse un gradiente di temperatura, le polveri più vicine al pianeta sarebbero troppo calde per mantenere acqua e ghiaccio, le più lontane invece potrebbero essere sufficientemente fredde da mantenere la composizione mista. Questa ipotesi è ancora da verificare, perché il trapping delle polveri avviene a una distanza fissata dal pianeta, fra un decimo e un terzo della sfera di Hill: è una regione poco estesa e non è scontato che si possano avere gradienti di temperatura tali da spiegare i gradienti composizionali. Se sia una traccia evolutiva, poi, non è chiaro. Io potrebbe invece aver perso ghiaccio perché è molto caldo e vulcanicamente molto attivo. Anche se non basta far evaporare l’acqua: bisogna farla scappare dalla sfera di influenza gravitazionale del satellite, e non è un meccanismo immediato».
Come mai questo modello non può essere applicato a pianeti più piccoli, come la Terra?
«Funziona solo per pianeti giganti perché è basato sulla dinamica del gas nel disco circumplanetario, che si forma solo attorno ai pianeti giganti. Pensi che addirittura né Urano né Nettuno erano abbastanza massicci da avere dischi circumplanetari».
Riuscite quindi anche a studiare il caso di Saturno, l’altro gigante del Sistema solare?
«Bisogna capire cosa è successo, a Saturno, che è un po’ diverso da Giove. Ha un satellite principale e un grosso anello, che fa pensare che in qualche modo di satelliti principali se ne fossero formati due, uno dei quali ha migrato talmente vicino al pianeta da rompersi e formare l’anello. Dobbiamo studiare quale diversità di architetture è possibile generare con questo meccanismo».
Dunque, state ancora verificando se sia applicabile su larga scala?
«Diciamo che il dust trap dovrebbe essere un meccanismo universale, quello che dobbiamo capire è quanti e quali sono i sistemi di satelliti che si possono formare. Se ogni volta facciamo sempre e solo sistemi à la Giove non va bene, bisogna riuscire a riprodurre una certa diversità. Nel Sistema solare, per esempio, di pianeti giganti ne abbiamo due, dobbiamo in prima istanza cercare di spiegare la diversità fra i due. Su questo stiamo lavorando, pensiamo che la varietà fra i sistemi sia un aspetto legato ai meccanismi di migrazione. È un po’ quel che è successo con i sistemi planetari extrasolari, che si sono rivelati tutti diversi dal Sistema solare, che veniva inizialmente assunto come modello».
E i dischi circumplanetari? Esistono strumenti adeguati a capire, in dettaglio, come sono fatti?
«Sarebbe interessante studiare la cinematica del gas attorno ai dischi circumplanetari, ma per ora è fantascienza. La risoluzione è – e temo sarà sempre – troppo bassa. Il disco circumplanetario è piccolo, si estende al massimo fino ad un terzo della sfera di Hill. La sfera di Hill è essa stessa piccolina, tanto che se avessimo un pianeta dieci volte più massiccio di Giove sarebbe una frazione di unità astronomica. Si riesce quindi a rivelare l’emissione delle polveri, ma non si riesce a risolverla. Ci vorrebbero dei super-Alma, attualmente fuori dall’immaginario della comunità scientifica».
Per saperne di più:
- Leggi su The Astrophysical Journal l’articolo “Formation of Giant Planet Satellites”, di Konstantin Batygin e Alessandro Morbidelli