«Gesuiti euclidei vestiti come dei bonzi per entrare a corte degli imperatori della dinastia dei Ming», cantava Franco Battiato nella mitica Centro di Gravità permanente, 1981. Ora: sappiamo che gli scienziati sono euclidei a corrente alternata e che la geometria piana forse è utile per calcolare la parallasse di una stella, ma si accartoccia sul tappeto morbido dello spaziotempo. Con buona pace di Matteo Ricci, il gesuita alla corte dei Ming cantato da Battiato.
Il baricentro però è un altro paio di maniche. Piace agli scienziati e piace ancor di più agli astrofisici che del nostro sistema solare hanno trovato il centro di gravità, come recita l’articolo da poco pubblicato su The Astrophysical Journal e che porta la firma di Michele Vallisneri. Media Inaf lo ha cercato e trovato al Jet Propulsion Laboratory. Negli Stati Uniti non è arrivato per seguire il sogno di una vita da astronauta, bensì per studiare la relatività di Einstein al California Institute of Technology. Qui ha lavorato su Ligo nel gruppo di ricerca di Kip Thorne (che nel 2017 ha condiviso il premio Nobel per Ligo) e alla fine del suo dottorato ha trovato un incarico al Jpl.
«E qui sono rimasto! Quello che continua a stupirmi di questo posto è come obiettivi pieni di immaginazione e poesia (cercare la vita su Marte, visitare le lune di Giove, raccogliere particelle di cometa, trovare buchi neri al confine dell’universo…) vengano serviti da rigore ingegneristico e pragmatismo scientifico. Nel mio piccolo, ho cercato di unire arte e scienza ‒ o meglio, ispirazione e divulgazione ‒ collaborando con musicisti italiani e americani per creare performance multimediali sui temi della mia ricerca».
Michele, dicci la verità: davvero avete trovato il centro di gravità del Sistema solare?
«Come cantava Battiato, sarebbe bello trovare il centro di gravità permanente su cui non cambiare più idea… ma in realtà si tratta di un oggetto matematico-astronomico sorprendentemente sfuggevole. Quello che abbiamo fatto è porre limiti su quanto questo baricentro si è mosso dal 2005, l’anno in cui sono cominciate le osservazioni della nostra collaborazione, NanoGrav».
Nel frattempo (2015) l’interferometro gravitazionale Ligo ha annunciato la storica scoperta di onde gravitazionali provenienti dalla coalescenza di buchi neri di origine stellare. Rilevarle ha aperto nuovi panorami sugli oggetti più estremi dell’universo. Qual è il vostro contributo?
«Le scoperte di Ligo e Virgo hanno aperto un nuovo settore dell’astronomia, e hanno già rivoluzionato le nostre idee sui buchi neri di origine stellare, e sulle stelle di neutroni. Ci sono voluti 100 anni e l’impegno di migliaia di scienziati per arrivare dalla previsione originale di Einstein al risultato davvero memorabile del 2015. Direi che questa scoperta ha trascinato tutto il nostro campo, e ha portato attenzione, talento scientifico, e sostegno finanziario a NanoGrav, e anche alla missione spaziale Lisa (su cui sto anche lavorando dal 2002), che negli anni 2030 cercherà onde gravitazionali di lunghezze d’onda intermedie tra Ligo/Virgo e le pulsar».
Che cosa fa NanoGrav?
«Ligo, come la sua controparte franco-italiana Virgo, sfrutta la minuta espansione e contrazione di un interferometro laser lungo 4 km. NanoGrav invece cerca di rilevare le onde gravitazionali di frequenza molto più bassa che provengono dai sistemi binari di buchi neri supermassivi (miliardi di masse solari) al centro delle galassie. Invece di uno strumento di 4 km, misuriamo la distorsione di tutta la nostra galassia, monitorando i segnali delle pulsar, stelle di neutroni che emettono impulsi a ogni rotazione. Questa rotazione è così regolare che possiamo utilizzarla come un orologio di riferimento: il passaggio di onde gravitazionali tra noi e le pulsar espande e contrae lo spaziotempo, generando minuscole anomalie nel tempo di arrivo degli impulsi sulla Terra. Per identificare le onde gravitazionali in modo inequivocabile, però, dobbiamo metterci in ascolto da un luogo completamente immobile rispetto alle pulsar, al vero centro del Sistema solare. Tra l’altro anche l’Inaf, con l’eccellente gruppo del Sardinia Radio Telescope, partecipa a questo tentativo di svelare il lato oscuro dell’universo! Siamo in competizione (ma anche collaborazione) molto cordiale».
Ma come si fa a trovare il baricentro di un sistema planetario?
«Beh, tanto per cominciare, per localizzarlo con esattezza dovremmo conoscere la posizione e la massa di tutti i corpi del Sistema solare, e calcolare il punto in cui sono esattamente bilanciati. Invece ci dobbiamo accontentare delle osservazioni limitate, anche se molto precise, che possiamo compiere dalla Terra e con le missioni spaziali. Inoltre gli astronomi continuano a scoprire nuovi oggetti trans-nettuniani simili a Plutone, e ogni volta che se ne trova uno, si deve ridefinire la posizione del baricentro».
Comiciamo bene…
«Fortunatamente, quando usiamo le pulsar per cercare le onde gravitazionali non dobbiamo preoccuparci se facciamo un errore riguardo alla posizione assoluta del baricentro; ma dobbiamo essere sicuri di non introdurre per sbaglio una sua lenta oscillazione artificiale di lunghezza simile alla durata delle nostre osservazioni (dodici anni). È per questo che Giove è importante: il suo periodo di rivoluzione è un po’ meno di dodici anni, ed è il corpo più pesante nel Sistema solare dopo il Sole. Così, se la nostra conoscenza dell’orbita di Giove è sbagliata di 100 chilometri, la nostra stima del baricentro in realtà oscilla di 100 metri rispetto alla sua vera posizione. A questo livello, cominciamo a vedere anomalie nei tempi di arrivo degli impulsi dalle stelle di neutroni».
Come avete capito in quale direzione andare con la vostra ricerca?
«Per tanti anni abbiamo lavorato con il presupposto che le effemeridi (le traiettorie dei corpi principali del Sistema solare, che Jpl calcola e pubblica per la comunità astronomica) avessero una precisione più che sufficiente per la nostra analisi. Ma nel frattempo la quantità ed estensione dei nostri dati è diventata tale che abbiamo superato la precisione delle effemeridi. Ce ne siamo accorti perché analizzare le pulsar con le effemeridi del 2010 ha dato risultati molto diversi dall’analisi con le orbite del 2015. Così abbiamo capito che il nostro osservatorio galattico sarebbe rimasto inaffidabile finché non avessimo controllato gli errori delle orbite planetarie, e così abbiamo costruito un modello matematico e un software che includono l’orbita di Giove nella nostra analisi. In altre parole, risolviamo un problema matematico che include sia Giove che i possibili segnali dai buchi neri supermassivi. Quanto alle onde gravitazionali, non possiamo ancora misurarle, ma siamo fiduciosi che continuando a osservare le pulsar per qualche anno raggiungeremo la sensibilità necessaria».
Per saperne di più:
- Leggi su The Astrophysical Journal l’articolo “Modeling the Uncertainties of Solar System Ephemerides for Robust Gravitational-wave Searches with Pulsar-timing Arrays” di M. Vallisneri, S. R. Taylor e altri